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Il giudice puo’ imporre una penale a chi presenta querele civili pretestuose contro i giornalisti

Di Alberto Spampinato* il . Lombardia, Progetti e iniziative

Com’è possibile che non si applichi nessuna penale a chi
pretestuosamente, strumentalmente, con falsi presupposti, presenta una
querela per diffamazione o una citazione per danni contro  un
giornalista? Finora le cose sono andate così, nonostante molte proteste
contro la prassi delle querele facili e il disinvolto e spesso
immotivato impiego delle citazioni per danni presentate per bloccare
notizie poco gradite. Ma ora le cose stanno cambiando, almeno per le
citazioni presentate al Tribunale Civile: a Milano si fa strada l’idea
di condannare chi presenta la citazione pretestuosa a versare al
giornalista un risarcimento pari a un terzo della cifra richiesta nella
citazione.   
La novità è emersa al convegno del 9 aprile scorso al
Circolo della Stampa di Milano, sul tema ”Che fare se una querela
blocca un’inchiesta?” promosso dall’Associazione Lombarda dei
Giornalisti, dall’Associazione Culturale Balrog, con la collaborazione
dell’osservatorio Ossigeno per l’Informazione e di Stampa Democratica.

Al convegno, il giudice Roberto Bichi, presidente della prima sezione
del Tribunale Civile di Milano, quella che si occupa di citazioni per
danni, ha annunciato che è maturato in seno alla magistratura
l’orientamento di sanzionare chi ha presentato una richiesta pretestuosa
applicando una recente norma di carattere innovativo inserita nel 2009
del Codice di Procedura Civile. Essa consente al giudice di infliggere
d’ufficio una sanzione pecuniaria a chi ha fatto la citazione ogni qual
volta il giudizio  accerti che le motivazioni addotte per chiedere i
danni sono insussistenti, false o volutamente esagerate.
  Prima di
spiegare di cosa tratta, ricordiamo come vanno le cose. Un giornalista
scrive un articolo, pubblica un’inchiesta. Se qualcuno ritiene lesa la
sua reputazione o colpiti in modo ingiusto i suoi interessi dal
contenuto di quelle notizie, può querelare il giornalista per il reato
di diffamazione a mezzo stampa, reato penale, e chiedergli i danni; o,
senza neppure presentare la querela per diffamazione, può rivolgersi
direttamente al Tribunale Civile e chiedere i danni al giornale e al
giornalista, quantificando i danni nella richiesta o lasciando al
giudice il compito di calcolarli. Tutti ricordiamo richieste di danni
per importi altissimi, anche superiori al milione di euro, tali da
mettere in ginocchio o da costringere alla chiusura un’azienda
editoriale. Ad esempio, Il Messaggero ha recentemente motivato le
difficoltà economiche per le quali ha mandato in pensione anticipata una
cinquantina di giornalisti con una condanna a pagare 2,5 milioni di
euro di risarcimento ai componenti dell’Orchestra Sinfonica Santa
Cecilia. Per questa condanna, confermata in Appello, si attende il
giudizio della Cassazione.

Il caso non è isolato. Purtroppo, nel nostro
paese, recentemente si è diffuso il malcostume di presentare in sede
civile richieste di danni anche in modo immotivato e pretestuoso, ad
esempio definendo notizie giornalistiche false quelle che invece sono
vere, anche se il querelante è consapevole che il giornalista ha
riferito circostanze vere, oppure contestando opinioni critiche come se
la loro espressione non fosse connessa all’esercizio della cronaca . Si
agisce così perché con la pura e semplice citazione per danni si può
condizionare pesantemente un giornale. Si può bloccare a lungo la
pubblicazione di una certa notizia e di altre collegate, si esercita un
effetto intimidatorio sull’attività del giornale e del giornalista.
Finora i più spregiudicati hanno potuto fare questo abuso della
citazione civile senza subire alcuna conseguenza. Di solito, per
fortuna, il giornalista esce assolto da questi processi, ma soltanto
dopo due-tre anni, nel migliore dei casi. L’incubo cessa quando il
giudice civile stabilisce che le ragioni addotte da chi ha chiesto i
danni non sussistono. A quel punto lo stesso giudice  condanna il
querelante a pagare le spese di giudizio e chi s’è visto s’è visto. A
chi ha intentato la lite temeraria finora i giudici non hanno mosso
alcun addebito, non hanno dato alcun risarcimento al giornale, che –
ricordiamolo – dal giorno della citazione e fino al giorno della
sentenza, per cautelarsi, ha dovuto smettere di trattare quella notizia;
né all’azienda editoriale, che ha dovuto accantonare per legge, e
iscrivere fra le passività di bilancio, il 10% dell’indennizzo
richiesto; né al giornalista che ha vissuto con l’incubo di pagare un
danno che sa di non aver causato.

   Adesso, ha spiegato il giudice
Bichi, c’è una norma che può cambiare questo stato di cose.  La norma in
questione è quella dell’art.96, secondo  comma del Codice di Procedura
Civile introdotta nel 2009. Essa stabilisce che, al momento di
pronunciarsi su chi deve pagare le spese di giudizio, il giudice può
condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente a pagare alla
controparte “una somma equitativamente determinata”. Bichi ha
sottolineato che si tratta di una innovazione importante, che ha
suscitato discussioni, obiezioni, proteste e ricorsi. Ma ormai, ha
aggiunto, la norma è pacificamente applicabile in base ad una sentenza
emessa nel 2010 dalla Corte di Cassazione. Detta sentenza ha
riconosciuto che la somma equitativamente determinata va al di là del
concetto di risarcimento del danno subito (che in quanto tale dovrebbe
essere comprovato, e ciò di solito è molto difficile per un giornale e
per un giornalista nella situazione di cui stiamo parlando) e assume
invece un carattere sanzionatorio, di “risarcimento sanzionatorio” nei
confronti di chi ha abusato del diritto costituzionale di rivolgersi a
un giudice per chiedere la riparazione di un torto presunto. Il
pagamento della somma equitativa, ha detto il giudice, ha lo scopo “di
evitare l’abuso del diritto processuale, si muove quindi anche a tutela
della giurisdizione, vuole in qualche modo sanzionare chi ha provocato
ingiustamente la sofferenza derivante dalla pendenza di un procedimento
giudiziario”.

  Il Tribunale Civile di Milano è orientato ad
applicare questa norma. Ma in che misura? Il legislatore non ha
stabilito in alcun modo la misura del risarcimento sanzionatorio. Ha
lasciato al giudice la più assoluta discrezionalità. I giudici della
prima sezione civile si sono posti perciò posti il problema di
individuare i limiti di una giusta quantificazione. “Ci siamo riuniti e
dopo un primo esame – ha detto il dottor Bichi – è prevalso
l’orientamento di applicare il risarcimento sanzionatorio fino a una
somma non superiore a un terzo del risarcimento che era stato chiesto ed
è stato rigettato”. In parole più semplici, chi ha chiesto centomila
euro di risarcimento, se il giudice accerta che lo ha fatto
pretestuosamente, o immotivatamente, potrà vedersi condannato a versare
fino a 33.000 euro al giornalista querelato. Si tratta, come si vede, di
misure molto incisive.

   Le considerazioni del giudice Bichi sono
di grande interesse e ci riserviamo perciò di pubblicare per intero la
sua relazione al convegno. Intanto ci sembra opportuno ricordare che già
al momento dell’introduzione dell’art.96 secondo comma l’avvocato
Domenico D’Amati del Foro di Roma aveva acutamente segnalato le nuove
opportunità offerte ai giornalisti. Ora le considerazioni dei giudici di
Milano aprono effettivamente la strada a una tutela più attiva in sede
giudiziaria del diritto di cronaca, a misure che potrebbero finalmente
porre freno all’enorme, crescente ed allarmante ricorso alla querela
facile, che a nostro avviso rappresenta ormai, oltre che un abuso della
legislazione, una grave forma di censura delle notizie giornalistiche
più incisive. Torneremo sull’argomento.

   Qui, in conclusione,
voglio segnalare alcune considerazioni di grande interesse fatte
dall’avvocato Raffaele Della Valle allo stesso convegno di Milano.
Rispetto alle querele pretestuose, ha detto il legale, tutti dovrebbero
fare fino in fondo la loro parte, anche gli avvocati . Ad esempio, ha
aggiunto, quando un cliente  chiede di presentare una querela che non
sta in piedi, l’avvocato dovrebbe rifiutarsi di patrocinarla, non
dovrebbe  assumere l’incarico di rappresentare il cliente in quella
causa immotivata. Se invece lo fa e il giudice rigetta la richiesta
dichiarandola insussistente, l’Ordine professionale dovrebbe intervenire
con una censura ed eventualmente una sanzione. Anche queste
considerazioni meritano di essere approfondite.
*Consigliere della FNSI, direttore di Ossigeno per l’Informazione


IL COMMENTO DELL’AVV. ORESTE FLAMMINII MINUTO

Ma per le querele penali il problema resta ed e’ una vergogna

Ritengo
sia necessario  fare chiarezza sulla questione delle querele temerarie.
Va innanzi tutto ricordato che la parola “querele” viene da noi
impropriamente usata per indicare sia le querele vere e proprie (che
sono istanze punitive rivolte al giudice penale) che le citazioni civili
(che sono atti di citazione tendenti ad accertare il comportamento
illecito sotto il profilo civilistico). Entrambi questi atti (querele e
citazioni) contengono la richiesta di risarcimento del danno.
Quello
che Spampinato ci ha segnalato riguarda solo le citazioni civili e
l’articolo 96 (non –come affermato – del Codice di procedura penale, ma
di quello di procedura civile), si applica solo alle cause civili di
risarcimento danni. Le problematiche sollevate, quindi, dal giudice
Bichi, non riguardano le querele. Nel settore penale (quello che
concerne le querele) esiste una norma la quale stabilisce che le
sentenze di  non luogo a procedere (quelle pronunciate dal GIP
all’udienza preliminare) perché il fatto non sussiste  e  quelle per non
aver commesso il fatto possono contenere la condanna del querelante al
risarcimento dei danni nei confronti dell’imputato che ne abbia fatto
richiesta SE VI E’ COLPA GRAVE. (Art. 427 Cpp). Le stesse disposizioni valgono per la sentenza dibattimentale (Art. 542 Cpp).

Nel
settore penale, quindi, la maggior parte delle sentenze  è fuori del
campo di applicazione di condanna per lite temeraria del querelante, in
quanto quasi nessuna si conclude con l’assoluzione del giornalista per
non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Quasi tutte,
quando assolvono, dichiarano l’esistenza del l’esercizio del diritto di
critica o di cronaca e la formula assolutoria è perché il fatto non
costituisce reato. La vera vergogna è dunque nei codici che prevedono
la punizione per chi fa liti temerarie, ma in buona sostanza la
temerarietà è esclusa se l’assoluzione sopraggiunge perché viene
esercitato un diritto !!! E questa è la vergogna vera.

Oreste Flamminii MInuto

Dispositivo dell’art. 96 del Codice di Procedura Civile:

Se
risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con
mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la
condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida,
anche d’ufficio, nella sentenza [disp. att. 152].  Il giudice che
accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un
provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta
ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su
istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni
l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale
prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma
precedente. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la
parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitativamente determinata.

* direttore di “Ossigeno per l’informazione” – L’Osservatorio sui cronisti minacciati promosso da Fnsi e Odg

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