Trapani la provincia dove Cosa nostra non si arrende
Matteo Messina Denaro? «Dovrebbero farlo sindaco». La puntata di Exit mandata in onda da La 7 non più tardi di alcuni giorni addietro lo ha dimostrato. Matteo Messina Denaro a Castelvetrano, la sua città, lo vorrebbero sindaco: «Perché di malefatte ne ha combinate molto meno di chi oggi governa», ha detto un intervistato che si è detto amico e conoscente del latitante. Un altro ha detto che Matteo Messina Denaro: «E’ un giovane per bene», c’è chi ha svelato: «Che frequentava il gruppo parrocchiale» e però non erano uno di quelli disposti a rispettare la carità e l’umiltà predicata nelle chiese se poi: «Andava in giro scorazzando su auto di lusso e gli piaceva fare la bella vita». Per un altro ancora le condanne e i delitti: «Sono cose che a lui non risultano e che di Messina Denaro non c’è ragione che se ne parli». È lo spaccato più recente della reazione che la società civile in una città come Castelvetrano oppone al fenomeno mafioso e al potere del super boss Messina Denaro erede del «patriarca» don Ciccio, e latitante dal 1993. Nasce tutto questo per caso? Sono questi sentimenti del momento o forse sono pensieri che trovano preciso radicamento?
Trapani, dove la mafia non alza bandiera bianca
Secondo l’ultima relazione della procura nazionale antimafia, che ha riservato molte sue pagine alla mafia trapanese, il giudizio da darsi rispetto alla mafia della provincia di Trapani è preciso e netto: «Qui la mafia non ha certo alzato bandiera bianca, ha subito colpi durissimi, ma per la particolare articolazione, per le infiltrazioni dalle quali trae linfa, non si può dire che è sconfitta» e tutto questo a prescindere dalla presenza del latitante Matteo Messina Denaro. Quindi, boss a parte, la mafia trapanese: «Ha capacità precise per ristrutturarsi e riorganizzarsi, nella provincia di Trapani, si dedica ancora al controllo occulto delle attività imprenditoriali, degli appalti, delle forniture ed all’imposizione del racket estorsivo. La struttura trapanese di «Cosa Nostra», che viene evidenziata è una organizzazione unitaria anche se organizzata a livelli, ha seguito parallelamente l’evoluzione della vicina organizzazione palermitana della quale può essere definita la più valida alleata; di essa non ha però assimilato i caratteri di notorietà, di aperta aggressione ai svariati settori della società civile, anche con il ricorso sistematico alla violenza, preferendo rimanere ad operare nell’ombra privilegiando il consenso della gente e l’appoggio dei ceti più abbienti con i quali sono state strette nel tempo profonde alleanze». Ecco come possono essere presto spiegate le reazioni raccolte dalla giornalista di Exit, che per alcuni giorni è stata in giro per la provincia di Trapani. Ha incontrato anche soggetti condannati per avere favorito la latitanza di alcuni capi mafia, si è sentita dire da alcuni di questi, nonostante i «guai» passati, arresti, condanne, che in fin dei conti (i boss) «erano persone che non davano fastidio».
Latitanti in una chiesa
Matteo Messina Denaro oggi, e suo padre prima, il “patriarca” della mafia belicina don Ciccio Messina Denaro, le loro latitanze le hanno trascorse comode, iniziandole, pare, dalla sagrestia di una delle antiche chiese di Calatafimi, per poi continuarle in altri luoghi. Da latitanti hanno presieduto summit, Ciccio Messina Denaro nel 1988 diede l’ordine di uccidere il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, nel 1992 Matteo Messina Denaro partecipò a pianificare la stagione delle stragi recandosi alle riunioni presso la calcestruzzi dei fratelli Agate a Mazara del Vallo. Ma con Matteo Messina Denaro al potere la mafia trapanese ha cominciato a cambiare volto.
«Mantenendo intatte la sua vitalità e la sua estrema pericolosità – si legge nella relazione della Procura nazionale antimafia – non ci si può illudere sul fatto che lo Stato, approfittando della sua momentanea debolezza, possa più agevolmente e definitivamente sconfiggerla». La Procura nazionale antimafia ha evidenziato come il «mandamento» mafioso di Castelvetrano vive grazie all’aiuto di «commercianti e politici». Lo scenario non è nuovo, da tempo dalle inchieste antimafia emerge questo genere di complicità. Ci sono «soggetti disponibili a mettere a disposizione le proprie imprese della mafia o a diventare prestanomi dei mafiosi».
Il giudizio del procuratore Grasso
Per il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso il problema più urgente è quello di dotare le strutture di investigazione di risorse umane e di attrezzature: «Deve giungere agli organi deputati al contrasto di Cosa nostra – scrive il procuratore nazionale antimafia – un flusso costante di nuovi, più affinati e sempre più efficaci, strumenti normativi e di risorse anche economiche per tenere testa all’organizzazione criminale; la quale, com’è noto, ha una spiccata abilità nel mettere in campo sofisticate tecniche di resistenza per fronteggiare l’azione repressiva dell’autorità giudiziaria».
Ma che genere di mafia abbiamo dinanzi a Trapani?
«Cosa nostra – si legge nella relazione – non è solo palermitana, attualmente il più pericoloso latitante (Matteo Messina Denaro ndr) ne costituisce la parte in libertà del vertice conosciuto, la provincia di Trapani è diffusamente interessata dalla presenza della criminalità organizzata. In termini generali può fondatamente affermarsi che l’associazione mafiosa trapanese, come rileva la ricostruzione resa possibile dalle numerose acquisizioni investigative e giudiziarie, mantiene inalterati i caratteri propri della specifica matrice criminale. In provincia di Trapani non risultano operare organizzazioni criminali diverse da cosa nostra che appare storicamente radicata, e modellata su quella palermitana di ispirazione corleonese, con cui sono documentati rapporti di solida alleanza».
Ma perché così tanto consenso della gente?
«La caratteristica principale resta quella di una mafia imprenditrice. L’attività di “Cosa Nostra”, nella provincia di Trapani, è svolta principalmente al controllo occulto delle attività imprenditoriali, degli appalti, delle forniture ed all’imposizione del racket estorsivo». Le indagini hanno accertato come il tessuto connettivo di «Cosa Nostra» trapanese laddove è stato depauperato, come ad Alcamo, è riuscito a rigenerarsi, attingendo da un nutrito substrato di soggetti non detenuti. Famiglie ricostituite grazie al fatto che non tutti i patrimoni illeciti disponibili sono stati sequestrati e confiscati, e adesso è a questo che le nuove strategie investigative in provincia di Trapani stanno puntando, togliere le casseforti dal controllo dei boss e dei loro complici.
Numeri e organizzazione della mafia trapanese
In totale in provincia di Trapani le indagini hanno individuato la presenza di 16 «famiglie» mafiose e circa 769 affiliati. La provincia di Trapani risulta suddivisa nei seguenti quattro mandamenti:
Il «mandamento» di Mazara del Vallo
È storicamente il mandamento che per primo strinse un patto di alleanza con i corleonesi di Salvatore Riina. Retto da Mariano Agate, è un importante riferimento nella storia di «Cosa Nostra» trapanese. Il mandamento comprende le famiglie di Mazara, Santa Ninfa, Vita, Salemi, Marsala. Il ruolo di don Mariano Agate si estende ben oltre i confini dei mandamento stesso, tanto da farne una delle figure di maggior spicco dei vertice di «Cosa Nostra». Il legame con i “corleonesi” é provato sin dagli anni settanta, allorquando venne trasferita a Mazara la sede della società
«Stella d’oriente» che è stata uno dei modi attraverso cui la «famiglia» mazarese ebbe ad inserirsi, in alleanza anche con la camorra napoletana, i noti fratelli Nuvoletta, in un più ampio giro di interessi criminali aventi ad oggetto l’infiltrazione mafiosa nel mondo politico, in quello massonico nonché la gestione ed il riciclaggio dei capitali illecitamente acquisiti. Oltre alle indicate attività criminose. Passano da Mazara ancora oggi le rotte del «narcotraffico», a Mazara poi è provata esistere una «cabina di regia» per il condizionamento delle gare per la realizzazione di opere pubbliche nel territorio regionale.
Il «mandamento» di Castelvetrano
Il mandamento di Castelvetrano, a ragione della sua posizione geografica e dello spessore della «famiglia» mafiosa Messina Denaro, svolge oggi un ruolo centrale negli equilibri di «Cosa Nostra», un ruolo di decisiva preminenza, unitamente alla «cosca» mazarese, dentro «Cosa Nostra» trapanese e siciliana, ben testimoniata dalla partecipazione alla strategia stragista continentale del ’93. Il mandamento di Castelvetrano comprende le famiglie di Campobello, Salaparuta, Partanna, Castelvetrano e Gibellina.
Il “mandamento” di Trapani
Pur avendo perso la centralità e rilevanza che aveva assunto in passato con la reggenza della «famiglia» Minore, il mandamento di Trapani conserva tuttora una sua valenza nella composizione del nuovo assetto mafioso provinciale e regionale. Vincenzo Virga e Ciccio Pace, quest’ultimo più vicino al latitante Matteo Messina Denaro, sono stati gli ultimi«padrini» individuati e condannati, tutti e due oggi sono in carcere. Il mandamento di Trapani comprende le famiglie di Trapani, Paceco e Valderice e Custonaci. Negli atti giudiziari il nome di Virga viene messo a stretto contatto con i corleonesi, tra i più rappresentativi a livello provinciale e regionale particolarmente vicino a Bernardo Provenzano, oggi tutti e due sono rinchiusi nello stesso carcere di Parma. Con la reggenza di Ciccio Pace la cosca trapanese ha reso più stretti i rapporti con l’imprenditoria e il mondo politico, costituendo veri e propri comitati d’affari.
Il «mandamento» di Alcamo
Essenzialmente per la sua posizione geografica, è quello che più ha risentito dell’influenza palermitana e, in particolare, del condizionamento della «famiglia» corleonese e del confinante mandamento di San Giuseppe Jato. Così, se fino ai primi anni ottanta la scena è stata dominata dalla famiglia Rimi, legatissima a Tano Badalamenti, «Tano seduto» appellato da Peppino Impastato, l’avvento dei corleonesi ha portato al comando delle famiglie Milazzo e Melodia, attività preferite quelle del traffico di droga (nel 1985 qui venne scoperta la più grande raffineria d’eroina d’Europa, a contrada Virgini). Anche nel territorio alcamese progressivamente si è fatto forte il legame con imprenditoria e politica. I prevalenti settori criminali di intervento sono quelli delle estorsioni, principalmente in danno di imprenditori, dell’infiltrazione nel settore dei pubblici appalti e del traffico di stupefacenti. L’illecita ingerenza nel settore dei lavori pubblici viene ormai attuata quasi esclusivamente in fase esecutiva, attraverso l’imposizione alle ditte aggiudicatarie del pagamento della «messa a posto» ovvero della fornitura di materie prime e manodopera. Il mandamento di Alcamo comprende le famiglie di Alcamo e Castellammare del Golfo.
Tutti gli affari della mafia trapanese
Le attività investigative condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo hanno fatto emergere l’esistenza di particolari interessi di Cosa nostra trapanese nei seguenti settori.
Controllo illecito degli appalti pubblici e dei subappalti
Rappresenta uno dei principali interessi di cosa nostra trapanese. Si sono raccolti elementi precisi sul controllo delle imprese e del progressivo passaggio dalla mafia che controllava le imprese, ai mafiosi che sono diventati via via imprenditori, titolari di aziende.
Usura
Il fenomeno dell’usura è presente in ambito provinciale. Il numero di episodi denunciati nel periodo in esame è pari a zero, ma è evidente la presenza di un «numero oscuro» di casi non denunciati. Recenti indagini hanno fatto emergere una maggiore tolleranza da parte dei vertici delle famiglie mafiose.
Reati in materia di stupefacenti
La provincia di Trapani è stata da sempre interessata in maniera consistente dal fenomeno della produzione e del traffico, anche internazionale, di sostanze stupefacenti, ciò anche grazie alla peculiare posizione geografica ed alla presenza di numerosi porti che agevolano i traffici con i paesi del Nord Africa.
Infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione
Le particolare capacità d’interlocuzione di Cosa nostra trapanese ha fatto sì che, nel corso degli anni, siano stati più volte documentati rapporti tra gli ambienti della criminalità di tipo mafioso e personaggi della pubblica amministrazione. Raccolta, stoccaggio ed eliminazione dei rifiuti solidi urbani. In passato sono stati raccolti elementi relativi al possibile intervento di membri di Cosa nostra mazarese nelle attività di smaltimento rifiuti relative all’Ato Tp2. Le inchieste hanno evidenziato condotte tese ad imporre alla società di gestione l’impiego di mezzi e personale di ditte vicine all’organizzazione mafiosa.
I complici del boss
Esiste una filiera del malaffare funzionale al boss latitante Messina Denaro, ne fanno parte i sostenitori del latitante castelvetranese. Tutto è racchiuso nelle operazioni cosiddette «Golem» condotte dalla Polizia, un reticolo fatto da uomini pronti a garantire supporto logistico al Matteo Messina Denaro. C’è poi la rilevante l’infiltrazione nel tessuto commerciale. È recente la condanna di Giuseppe Grigoli, «re» del commercio, secondo i giudici di Marsala che lo hanno condannato non come prestanome del latitante ma socio del boss latitante, ma mafioso quanto Matteo Messina Denaro. «Sono la stessa cosa» hanno detto i pentiti.
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