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Reggio Calabria: operazione Archi, colpiti i Tegano e i Labate

Di Gaetano Liardo il . Calabria

Dal quartiere Archi, nella zona nord di Reggio Calabria, avevano esteso i loro tentacoli in tutta la città. Facendo affari. Senza però scontrarsi con le altre cosche reggine. C’è un equilibrio a Reggio Calabria. Una pax mafiosa. Dal 1991, dopo la sanguinosa faida che ha visto scontrarsi le principali famiglie di ‘ndrangheta, lasciando sul terreno centinaia di morti ammazzati. Sono queste alcune delle conclusioni a cui sono arrivati gli inquirenti con l’operazione di oggi. L’operazione “Archi”, per l’appunto. Conclusioni che trovano conferma nelle indagini degli ultimi anni, prime fra tutte “Meta”, dello scorso giungo, o “Il Crimine”, di luglio, che hanno fotografato la geografia criminale di Reggio Calabria, la prima, e della ‘ndrangheta reggina, la seconda. Ventisei arresti, quelli di oggi, realizzati dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, supportata dal Servizio centrale operativo (Sco) della polizia, e coordinati dalla Dda dello Stretto. Ad essere colpiti i vertici della cosca Tegano, ma anche esponenti di rilievo della famiglia Labate.

In manette, tra gli altri, Giuseppe e Bruno Tegano, fratelli del boss Giovanni già in carcere. Anche in questa operazione sono risultate utili le informazione fornite dai collaboratori di giustizia. Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano; Antonino Lo Giudice, ex capo dell’omonima cosca e Consolato Villani, ex affiliato ai Lo Giudice. Informazioni che hanno consentito di delineare gli equilibri interni alle cosche reggine. Una strategia che dalle numerose indagini registra la presenza di un “cabina di regia”, una “camera di compensazione”, tramite la quale le cosche di Reggio Calabria risolvono i problemi. Mantenendo la pace.

Con “Il Crimine” è stato possibile individuare la struttura della ‘ndrangheta operante nella provincia di Reggio Calabria. La “Provincia” è divisa in tre mandamenti: “Tirrenico”, “Jonico” e “Città”. A Reggio Calabria (mandamento “Città”), così come negli altri mandamenti della “Provincia”, le famiglie discutono, fanno affari e mediano le tensioni. Uno strumento sicuramente differente dalla “Cupola” di Cosa nostra, ma efficace. Un’organizzazione, in parte, inquadrata nella sentenza di primo grado del processo Olimpia del 1999. Per la Corte di Assise di Reggio Calabria, infatti: «Non può certamente escludersi che dopo la fine della guerra di mafia che ha insanguinato la città di Reggio Calabria dal 1985 sino al 1991 i capi delle singole organizzazioni mafiose operanti nel territorio dell’intera provincia abbiano avuto la possibilità di incontrarsi allo scopo di trattare affari criminali di comune interesse ovvero dirimere conflitti potenziali tra le cosche o per far cessare guerre di mafia in corso».

Sentenza confermata in appello, dove si legge che: «L’ipotesi accusatoria prospettata, dunque, è quella secondo la quale la ‘ndrangheta, pur mantenendo la sua conformazione originaria basata sull’autonomia delle strutture territoriali avrebbe aggiornato il suo modello associativo orientandosi verso una struttura federativa di tipo piramidale al cui vertice si colloca un organo decisionale di vertice (indicato come “Cosa Nuova ” – “Cupola Provinciale”- “Provincia”)». Sentenze che hanno consentito nel tempo ai magistrati reggini, e non solo, di seguire gli sviluppi di un modello organizzativo flessibile, ma funzionale. Capace di far diventare la ‘ndrangheta l’associazione criminale italiana più ricca e potente.

Grazie quindi alla pax mafiosa a Reggio Calabria e in provincia, anche se di scontri e faide ne sono comunque sorte, che l’ascesa della ‘ndrangheta è diventata “irresistibile”.

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