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Guerra alla giustizia

Di Vincenzo Macrì* il . L'analisi

Per meglio celebrare il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, a qualcuno è venuto in mente di riportare all’antico splendore il glorioso Statuto albertino, concesso graziosamente da Carlo Alberto nel 1848 ai sudditi del  Regno di Piemonte e Sardegna, divenuto poi Statuto del Regno d’Italia, in vigore sino al 1946. Perché di questo si tratta, e non di una riforma “tecnica” limitata al solo settore della giustizia, al fine di renderla più moderna e funzionale, come viene fatto credere per fuorviare la pubblica opinione. Fuorviante anche ridurla ad un episodio, tra i tanti, della infinita guerra tra politica e magistratura, in corso dal 1994 ad oggi.

Non si tratta di questo e non è la magistratura la (sola) “parte lesa” della riforma, bensì la nostra democrazia, che, in caso di approvazione della riforma, ne risulterebbe stravolta. Si tratta di una vera e propria modifica della forma-Stato introdotta dalla Costituzione, che regredirebbe a regime autoritario di tipo presidenziale. Allora sì, saremmo alla terza Repubblica, dai caratteri del tutto diversi da quella delineata dall’Assemblea Costituente. L’Italia non avrebbe  più tre poteri, secondo il modello liberale classico, delineato da Montesquieu nel suo Esprit de lois, per il semplice motivo che il potere giudiziario non esisterebbe più; sarebbe cancellato, con vigorosi tratti di penna, e ridotto ad ordine professionale di funzionari dello Stato addetti all’amministrazione della giustizia.

Se a mettere mano a questa trasformazione fosse stata una Assemblea Costituente, nulla da obiettare; ma che questo possa essere realizzato nelle modalità della ordinaria revisione costituzionale, e per di più sotto le apparenze di una ordinaria riforma della giustizia, non pare possibile e consentito. Il processo di revisione di cui all’art. 138 Cost. non può riguardare i principi fondamentali della carta, né si può obiettare che nessuna delle nuove norme è idonea ad intaccare tali principi. Lo è  l’art. 1, che assegna al popolo la sovranità da esercitarsi nelle forme e nei limiti della Costituzione. Anche l’amministrazione della giustizia appartiene alla sovranità popolare, tanto che le sentenze sono emanate “in nome del popolo italiano”. Ed anche la selezione dei magistrati mediante concorso è un modo di realizzare tale sovranità, perché garantisce la presenza di un “campione del popolo”, fondato sul merito e non su base ideologica e politica.

 Se la giurisdizione viene limitata nel suo esercizio, se l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, sia pure solo quella requirente, fosse limitata, allora anche la sovranità del popolo in materia, verrebbe limitata. E’ intaccato l’art. 3 che proclama l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. In materia di giustizia penale è assicurata  dall’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112). Chiunque commetta un reato, ricco o povero, immigrato o capo del governo, deve essere perseguito, senza poter godere di aree di impunità. Il disegno riformatore cancella l’obbligatorietà perché, pur mantenendola formalmente (e questo è l’inganno), la elimina subito dopo quando afferma che il suo esercizio avviene secondo i criteri stabiliti dalla legge. E’ lo stesso procedimento usato per eliminare l’inamovibilità dei magistrati, anch’essa formalmente proclamata, anch’essa derogabile per legge.

Di fatto, ogni governo, ad inizio di legislatura, o anno per anno, potrà regolare i casi  e i modi di esercizio dell’azione penale, anche affidandone la determinazione ad organi del potere esecutivo. In tal caso l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge rimarrà una mera enunciazione di principio. Rimettere alla legge ordinaria la disciplina di principi costituzionali inderogabili,  equivale a vanificarli ed a rendere flessibili quelle norme costituzionali sinora protette dal criterio di rigidità. Si aggiunga ancora che autonomia e indipendenza non trovano più il naturale presidio costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura, che, da organo di garanzia viene smembrato prima e ridotto poi ad organo di amministrazione ordinaria, come fosse una commissione di avanzamento ministeriale, privato delle sue prerogative costituzionali tra le quali la competenza a giudicare in materia disciplinare, e profondamente inquinato da condizionamenti politici a seguito della modifica della composizione.

Da organo di garanzia dal potere esecutivo, esso diviene organo di controllo della maggioranza sulla magistratura. La riforma precisa che solo i giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente, (quello dei pubblici ministeri non è neppure un ordine, ma un “ufficio”), mentre l’art. 104 lo affermava con riferimento all’intera magistratura, requirente e giudicante, e sorgono seri dubbi sulla possibilità che in futuro il giudice possa sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale! L’Ufficio del pubblico ministero non avrà neppure la disponibilità della polizia giudiziaria, anch’essa regolata, per il futuro, da legge ordinaria; il progetto di riforma del codice di procedura penale toglie al p.m. la disponibilità della polizia giudiziaria, nella fase più delicata della ricerca della notizia di reato e degli elementi di prova.

Di fatto, sarebbe stata sufficiente questa sola disposizione per annullare l’obbligatorietà dell’azione penale, in futuro rimessa al potere esecutivo. Anche la giurisdizione disciplinare sarebbe rimessa ad un organo a preponderante composizione politica, e le riforme in tema di responsabilità civile completano il disegno riformatore in senso discriminatorio e punitivo nei confronti della magistratura per il solo fatto di non essersi voluta piegare alle pretese di impunità del potere politico.

* Procuratore capo della Repubblica di Ancona

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