L’altro, l’ospite, lo straniero
«La diaspora è un mondo antico», spiega Paul Gilroy, sociologo della Lse, citando il poeta cubano Virgil Suarez che ricorda di aver incontrato ovunque, nel mondo, suoi conterranei, sperduti dalla Terra del Fuoco all’Islanda. Non stupisce il richiamo di questo meticcio esponente dell’intellighenzia atlantica, sospeso tra le sue origini caraibiche e la vita accademica britannica. In effetti è davvero così come lui dice.
I miti, a proposito, sono numerosissimi: dai celebri peripli confusi tra iniziazioni ed esplorazioni raccontati dalle letterature di ogni popolo e di ogni tempo, fino all’Esodo – che dà nome al secondo libro della Torah (e della Bibbia), che contiene tutte le storie meglio conosciute del Libro (Mosè, le piaghe d’Egitto, il deserto, il Decalogo, il vitello d’oro, etc.); fino alla Diaspora ebraica seguita alla distruzione del Tempio, nel 70 d.C.; fino ad Assuero, Buttadeo, Cartofilo: i nomi dell’ebreo errante condannato a non fermarsi mai fino al ritorno di Cristo; fino all’esplosione demografica del XX secolo, con gli spostamenti obbligati di masse enormi di esseri umani, spesso – arcaicamente – spinti dalla ricerca di cibo e acqua o, al massimo, di un lavoro.
Insomma: da sempre noi uomini siamo tutti in giro, tutti a spasso per il pianeta, animati da voglia di riscatto, oppure da un protervo desiderio di conquista; ma anche mossi dalla fame, scacciati dalla guerra, affascinati da un sogno. Popoli interi in cammino, stranieri fra loro, che finiscono per doversi incontrare. I popoli, tutti, hanno un passato da migranti. Lo ricorda Seneca, il filosofo latino, nella lettera “Ad Helviam matrem”:
“(…) han cambiato sede genti e popolazioni intere. Che significano le città greche sorte in mezzo a paesi barbari? E la lingua macedone tra i Persi e gli Indi? La Scizia e tutta quella regione abitata da popolazioni selvagge e indomite mostra città greche fondate sui lidi del Ponto; né il rigore del lungo inverno, né l’indole degli abitanti, aspra come il loro clima, hanno scoraggiato quanti trasferivano li le loro dimore. L’Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po’ dappertutto; tutta questa costa dell’Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L’Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l’Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani. La volubilità umana si è riversata su vie impraticabili e ignote. Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un’eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata”.
Ecco. La parola “migrare” – la cui etimologia risale all’accadico (“ma’aru wâru”, vado), la lingua diplomatica dell’antichità mesopotamica – va completata con il concetto di “pellegrino” (peregrinus, per+agro, attraverso) e indiscutibilmente con la parola-chiave nei rapporti umani: “altro”. L’altro, appunto. Quello che sta fuori da me, o che è arrivato “da fuori”. Quello là, insomma. Quello che non sono io.
L’etimologia ci aiuta: il latino “alter” (ma anche “ullus”, quello), così come il greco “αλλος” (si finisce con gli “alieni”, ovviamente): tutti questi pensieri ridotti a vocaboli – anche qui l’accadico (“allû”) è l’origine di tutto, con il babilonese “ullû” e l’antico ebraico “elle” – hanno origini antiche, e si richiamano alla radice “ul-“, tipica del concetto di “allontanamento”. Testimoniano di un’esperienza arcaica vissuta dall’uomo nella sua storia. Un’esperienza formativa della coscienza, che ha finito per condizionare la forma stessa delle organizzazioni umane: città e stati, nazioni e leggi.
A fianco dell’alterità – evidente (la pelle), supposta (la lingua), metafisica (la religione) – c’è il concetto di estraneità, da cui deriva lo stato di “straniero”. Uno straniero (lat. “extraneus”) è uno che viene da fuori. Nei confronti dello straniero l’umanità ha tenuto atteggiamenti diversi nel corso della storia, che hanno generato diverse forme di ospitalità. L’ospitalità è una pratica antica, infatti, che fu necessario “inventare” perché – è evidente – qualcuno bussava alla porta. Tutte le culture “superiori” più antiche consideravano l’ospitalità come un dovere sacro: Greci, Romani, Germani, Slavi, Persiani, Cinesi, Indiani, Egizi, Ebrei. Ma anche gli Ainu del Pacifico e gli “indios” delle Americhe. L’ospite, si dice, è sacro e va accolto con ogni riguardo. Questa ospitalità da un lato serviva a controllare la potenziale “magia” dello stranero, ma dall’altro garantiva anche la possibilità di stabilire con lui (e con il suo popolo, più o meno lontano) relazioni utili e proficue.
Gli Ainu raccomandavano: «Non disprezzare lo straniero: non sai chi si può celare sotto i suoi abiti»; lo stesso facevano i greci omerici, che credevano che gli dei si travestissero per girare per il mondo. Omero fa dire a un commensale di Alcinoo che aveva tirato una sedia a Ulisse: “Vacci piano! Se fosse un nume?” Dopotutto anche il sindaco di Milano, l’ha raccontato lei stessa, si travestiva, con il figlio (Batman) per osservare da vicino il mondo degli “umani”… Per capire quanto fosse proibito fare del male agli stranieri, infine, basti pensare a Sodoma e Gomorra, dove gli abitanti derubavano gli stranieri e i viandanti… e poi si sa com’è finita!
Certo, sia tra i Greci che tra i Romani – così come, più tardi, presso i Germani – anche l’ospitalità aveva dei limiti. Plauto, nel Miles gloriosus, fa dire al giovane Pleusicle:
“Per quanto amico sia colui che lo ha invitato, nessun ospite, che si trattenga per tre giorni di fila, può fare a meno di puzzare. Se poi i giorni sono addirittura dieci, è un’Iliade di malumori. E anche se il padrone sopporta senza fare una piega, i servi cominciano a mugugnare.”
Insomma: anche all’ospitalità c’è un limite. C’è sempre stato, come il detto giuridico germanico ricorda: “Due giorni: ospite; dal terzo: domestico”. Nei tempi antichi si sviluppava un rapporto di dipendenza, quando si superavano i limiti concessi dagli usi e dalla… buona educazione. Si finiva persino per perdere la libertà.
Di contro, in particolare tra Greci e Romani, esistevano rapporti di ospitalità reciproca che potevano durare ben oltre la vita di coloro che li avevano fondati. Tra due famiglie o tra due gruppi, infatti, si poteva giungere a forme di mutua ospitalità, durevoli attraverso le generazioni. Le due parti, a tale scopo, condividevano un συμβολον, una tessera hospitalis, divisa in due metà, ciascuna custodita da un lato della relazione. Mostrando il segno di riconoscimento, che doveva combaciare perfettamente con l’altra parte, si poteva ottenere l’ospitalità richiesta, con tutti i “servizi” che questa portava con sé: dal prestito finanziario alla custodia dei beni.
Per finire, seguendo quest’ultima, potente metafor
a: le torme di umani che si affacciano oggi ai nostri confini, poveri, stracciati, minacciosi, bisognosi, forse ostili… sono forse portatori di un συμβολον del quale siamo noi ad aver perduto la metà, perfettamente combaciante con la loro. Sta alle nostre intelligenze e alla nostra umanità cercare di ricordarne la forma. È la storia che lo insegna.
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