Una nuova ombra sul governo Berlusconi
L’ombra della mafia ha varcato la soglia del Quirinale, lontana, forse volatile, ma pur sempre minacciosa e incombente. L’ha portata con sé, ancora una volta, il presidente del consiglio Berlusconi, che ha costretto Giorgio Napolitano, nonostante le serie riserve da lui espresse per più giorni, a firmare la nomina a ministro dell’Agricoltura di Saverio Romano, su cui pendono due inchieste, una per corruzione aggravata e una per concorso esterno in associazione mafiosa. Per quest’ultima il pubblico ministero Di Matteo aveva chiesto l’archiviazione, per mancanza di prove, ma il Gip ha mantenuto aperta l’inchiesta, fissando la decisione al 1mo aprile. Subito dopo la firma della nomina, decisa perché non sussistevano “impedimenti giuridico-formali”, Napolitano ha diramato una dura nota senza precedenti in cui ribadisce le sue riserve e auspica un chiarimento sulle “gravi imputazioni” giudiziarie di Romano nei procedimenti in corso.
E’ evidente, in questa vicenda, che il Capo dello Stato ha voluto evitare, accordando la firma, un conflitto istituzionale di più vaste proporzioni, nonché le inevitabili accuse sulla presunzione di innocenza di un politico indagato, ma non imputato, che sarebbero venute dalla maggioranza, ribadendo però la sua fiducia nell’iter giudiziario e rivendicando nel pieno rispetto della Carta costituzionale l’autonomia di valutare alla fine se e come Romano uscirà innocente dalle inchieste ancora aperte. E’ altrettanto evidente che il premier ha forzato la mano, sfidando così apertamente il Capo dello Stato perché indotto dal diktat dei cosiddetti “responsabili”, che chiedono di riscuotere con posti al governo il prezzo del loro appoggio al governo. Proprio subito dopo la notizia della avvenuta nomina, nella Giunta per le Autorizzazioni a Procedere hanno salvato per un voto di scarto la decisione di far passare il conflitto di attribuzione al tribunale dei ministri nel processo Ruby.
Questa sorta di ricatto cui Berlusconi è sottoposto da coloro che ha faticosamente acquisito sul “mercato” degli acquisti in cui si è trasformato nei mesi scorsi il Parlamento, è per lui vitale soprattutto in vista di quel “processo breve”, rispolverato con l’emendamento “ad personam” sulla prescrizione riguardante gli imputati incensurati (costruito appositamente per lui) che approderà fra pochi giorni in Parlamento e che, se approvato, annullerà di fatto il processo Mills e quelli Mediatrade e Mediaset, già moribondi per le precedenti leggi “ad personam” su misura del premier.
E’ però del tutto aperta e vale la pena di approfondire la posizione di Saverio Romano, siciliano rampante formatosi alla scuola di potere della DC, poi passato all’UDC al fianco di Cuffaro e ora capofila dei “responsabili”, divisi peraltro nella caccia ad altri posti nel rimpasto di governo. Già nella richiesta di archiviazione della Procura di Palermo per l’accusa di concorso esterno, si parla di una sua “contiguità” con ambienti mafiosi. Elementi emersi anche dalla sentenza definitiva di condanna che ha portato in carcere Totò Cuffaro e relativi a frequentazioni e scambi elettorali con il pentito di mafia Francesco Campanella, che ha chiamato in causa la potente famiglia mafiosa di Villabate. Non prove, ma certo consistenti dubbi, se il Gip ha tenuto aperta l’inchiesta e lo stesso Capo dello Stato ha voluto prendere clamorosamente le distanze dalla nomina.
C’è poi l’accusa di corruzione aggravata, lanciata da Massimo Ciancimino e che riguarda una mazzetta che Romano avrebbe ricevuto – secondo la testimonianza – nell’ambito di un’azione di intermediazione su affari della metanizzazione in Sicilia. Infine può investire Romano la vicenda del comune natale di Belmonte Mezzagno, suo feudo elettorale, amministrato dallo zio Saverio Barrale, su cui pende la minaccia dello scioglimento per infiltrazioni mafiose. L’imbarazzato silenzio del ministro Maroni, che ha inviato in quel paese 3 ispettori, è stato eloquente quando gli hanno chiesto un commento sulla nomina di Romano…
E’dunque ancora una volta la questione morale, con pesanti risvolti giudiziari, che investe il premier , richiamando altri casi di ministri e uomini di governo o essenziali nella maggioranza, indagati, processati, proposti per altisonanti carriere e ritirati o costretti alle dimissioni dopo le inchieste della magistratura o le resistenze costituzionali del Capo dello Stato, da Bertolaso a Verdini, al centro delle indagini sulla “cricca”, da Dell’Utri, pluricondannato per concorso esterno alla mafia, all’ex ministro Scajola e al suo successore Brancher, fino al sottosegretario Cosentino, che sarebbe stato da tempo arrestato per camorra se non fosse stato salvato inopinatamente in Parlamento.
Un’ombra lunga e pesante, dunque, alla quale devono opporsi con ben maggiore forza, incisività e unità tutte le forze di opposizione e i cittadini nel Paese che vogliono difendere la Costituzione, riaffermare il principio che “la legge è eguale per tutti”, esigere che chi governa l’Italia non possa avere scheletri nell’armadio o calpestare impunemente i principi che sono alla base della libertà della Repubblica.
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