Lombardia, colonia di ‘ndrangheta
Come ogni anno, lo studio della nuova relazione della Direzione Nazionale Antimafia richiede attenzione e pazienza.
Attenzione per cogliere gli elementi di novità che la relazione sottolinea, pur nel ripetersi delle dinamiche mafiose. Pazienza per collegare tutti i fili dei diversi ragionamenti che in essa s’intrecciano meticolosamente, se non si vuole rimanere schiacciati dalla impressionante mole di dati.
Ecco perché non può bastare una sola lettura, ma occorre ritornare più volte sulle stesse pagine per coglierne fino in fondo il significato. Ciò vale anche per le pagine che sono dedicate all’analisi del fenomeno mafioso in una regione come la Lombardia.
Colonizzazione del territorio
Finalmente la DNA decide di voltare pagina e non parlare più d’infiltrazione mafiosa del territorio lombardo, ritenuto sano e impermeabile alle pressioni criminali, ma utilizza il vocabolo ormai più appropriato – “colonizzazione” – per restituire nella maniera più plastica i termini della questione: «Dal complesso delle indagini infatti è emerso che la Ndrangheta in Lombardia, si è diffusa attraverso un fenomeno di espansione su un nuovo territorio, una vera e propria “colonizzazione” che ha visto riprodursi una struttura criminale che nel tempo si è radicata con un certo grado di indipendenza dalla casa madre, con la quale continua a mantenere legami e rapporti molto stretti; i soggetti investigati operano nel territorio lombardo secondo le tradizioni ed i riti della Ndrangheta ma anche secondo le modalità violente tipiche di una associazione di stampo mafioso».
Si giunge a questa conclusione grazie ad una puntuale ricostruzione storica degli avvenimenti: dallo sciagurato utilizzo della misura di prevenzione personale del soggiorno obbligato alla stagione dei sequestri di persona; dal predominio delle cosche siciliane del mercato degli stupefacenti nei decenni Settanta e Ottanta per arrivare al contesto di oggi, in cui la ‘ndrangheta la fa da padrona. Le cosche calabresi hanno saputo sfruttare la disattenzione nei loro confronti, speculare all’attenzione che l’opinione pubblica aveva nei confronti della corruzione – Milano è stata l’epicentro di Tangentopoli – e della mafia siciliana che attaccava frontalmente lo Stato, uccidendo Falcone e Borsellino e instaurando la famigerata trattativa, a colpi di bombe piazzate nel resto d’Italia.
Cade così la teorizzazione della Lombardia come “isola felice”, sottoposta a tentativi di infiltrazione, fortunatamente rintuzzati grazie alla tenuta complessiva del tessuto sociale ed economico. Al contrario, la relazione torna a puntare il dito contro la diffusa omertà della cittadinanza, in questo riprendendo gli allarmi a più riprese lanciati dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, quando in esito proprio alle operazioni di repressione, si è trovata a sostenere con forza la necessità di una collaborazione di cittadini e imprenditori con lo Stato.
Dal Crimine all’Infinito..
La relazione si sofferma poi diffusamente sull’imponente operazione “Il Crimine” coordinata dalla DDA di Milano e di Reggio Calabria che ha portato ad un risultato straordinario nel luglio 2010: 300 arresti tra Milano e la Lombardia – la metà dei quali già a processo nel mese di maggio nel capoluogo lombardo – e beni sequestrati per quasi 80 milioni di euro.
La fotografia che esce dall’imponente blitz, denominato “Infinito” nella sua declinazione lombarda, è talmente preoccupante da far tremare i polsi: sarebbero 500 gli affiliati in tutta la regione e i locali sgominati sarebbero solo una parte della ramificata organizzazione territoriale che la ‘ndrangheta è riuscita a mettere in piedi in poco meno di tre decenni. I locali disarticolati della forze dell’ordine erano operativi a Bollate (MI), Bresso (MI), Canzo (CO), Cormano (MI), Corsico (MI), Desio (MB), Erba (CO), Legnano (MI), Limbiate (MI), Mariano Comense (CO), Milano, Pavia, Pioltello (MI), Rho (MI), Seregno (MB), Solaro (MI).
Un risultato del tutto imprevedibile per la mafia calabrese, che è riuscita tutto sommato ad uscire indenne dalla stagione dei maxiprocessi che a metà degli anni Novanta i magistrati milanesi riuscirono ad istruire facendo condannare, alla fine, quasi tremila persone per reati associativi di stampo mafioso. Nello stesso periodo, per dare un numero di riferimento, i mafiosi processati e condannati dalla DDA di Palermo furono poco più di un terzo. La diffusa presenza delle cosche calabresi in Lombardia si è tal punto ramificata, “ha messo radici” così solide, utilizzando linguaggi e metodologie proprie della ‘ndrangheta.
È successo così che, nonostante il legame con la “casa madre” fosse stringente, alcuni dei boss attivi sul territorio regionale si siano posti, in anni recentissimi, l’esigenza di una maggiore autonomia dalla struttura di comando, allocata da sempre nella regione d’origine, in Calabria. Ne è nato il tentativo guidato da Carmelo Novella di rendersi indipendente dalla catena di comando calabrese, un tentativo poi soffocato nel sangue e prodromico di una successiva ristrutturazione, solo parzialmente ostacolata dall’azione di magistrati e forze dell’ordine. Il tentativo goffamente federalista attuato dai vertici della “Lombardia” – la struttura di comando era così singolarmente denominata – si è esaurito stante l’impossibilità di arrivare ai ferri corti con le locali calabresi e la contemporanea pressione dello Stato. Sembra tuttavia un ipotesi non peregrina per il futuro prossimo delle cosche comunque operanti in Lombardia, vista anche la grande capacità di movimentare il denaro proveniente dal traffico di stupefacenti e da tutti gli alti business legali ed illegali.
Colletti bianchi?
Un ulteriore e fondamentale elemento di analisi viene dall’approfondimento che la DNA svolge sul nesso tra crimine organizzato di stampo mafioso ed istituzioni economiche e finanziarie della piazza milanese, strategico centro di comando di una regione che è il cuore e il motore del sistema Italia.
Anche in questo caso le parole pesano, con tutto il loro significato: «Ad oggi può dirsi che si sta assistendo al fenomeno della progressiva “criminalizzazione” della economia in cui ruolo attivo è ricoperto da questa mafia attraverso l’impiego e la trasformazione della enorme quantità di denaro nell’acquisto di mezzi (ruspe, camion, betoniere) aziende, nella penetrazione nel mondo degli appalti, nell’acquisto e rivendita di immobili (attività queste più “invisibili” ma non meno redditizie) il tutto peraltro senza mai abbandonare le attività tradizionali (usura, estorsioni, traffico di stupefacenti e di armi ). Proprio al Nord vale infatti il principio della strategia dell’occultamento, dell’inabissamento, del mimetismo».
Per questo motivo, sottolinea ancora la DNA, oggi si può parlare di “Mafia invisibile”. Una dote, questa di sapersi mimetizzare con l’ambiente circostante, che in un contesto quale quello milanese e lombardo diventa una micidiale arma che consente di superare lo stesso controllo armato del territorio. Il paradosso è che, in assenza di una presenza strutturata militarmente – sebbene anche quest’ultimo elemento sia in forte mutamento – si arriva a negare l’esistenza della stessa mafia. Le conclusioni della Direzione Nazionale Antimafia non sono rassicuranti, perché ancora una volta si finisce con il pescare nel torbido.
Gli invisibili
Vista l’ingente mole di denaro a disposizione, il volume di affari complessivo ad essere coinvolti non sono soltanto i manovali del crimine, ma anche gli incensurati, un tempo chiamati “colletti bianchi”, ma oggi difficilmente collocabili, visto che giocano sul filo del rasoio che divide mercati legali da mercati illegali.
È un sistema economico che si fa esso stesso crimine, in alcuni fondamentali passaggi: «Non troviamo una mafia di soggetti marginali, vi sono imprenditori e professionisti, vi sono proprietari di bar e ristoranti, dirigenti di aziende, aziende e professioni in genere legate al mondo dell’edilizia. Questi soggetti mantengono rapporti e contatti, tessono relazioni politiche che sono il “capitale sociale” della organizzazione criminale».
Sono queste figure, definite nella relazione “gli invisibili”, che sono la vera mina vagante oggi al servizio delle cosche, perché capaci di condizionare scelte economiche e politiche, che siano funzionali agli affari delle mafie. Istituzioni politiche ed economiche sono chiamate ora ad un profondo esame di coscienza.
Di questo e altro se ne parlerà domani mattina a Milano, nell’aula magna dell’Università degli Studi, durante il seminario intitolato “Mafie a Milano e nel Nord: aspetti sociali ed economici”, con la presenza del presidente di Libera Don Luigi Ciotti e del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi.
Ad organizzare l’importante incontro, primo di un ciclo che prevede altre sette appuntamenti nei prossimi mesi, sette atenei milanesi e Libera. Un tassello importante per costruire quegli anticorpi di cui la Lombardia e il Nord hanno bisogno nel fronteggiare il nemico che, ormai, non preme più alla porta, ma anzi è seduto sul divano di casa.
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Mafie a Milano e nel Nord: incontro fra Don Ciotti e Mario Draghi
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