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Il delitto Rostagno: tra ipotesi di depistaggio e sottovalutazioni

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Mandanti occulti. Non c’è a Trapani solo il processo in corso contro i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara. C’è un’altra indagine, a Palermo, sul delitto di Mauro Rostagno del 26 settembre 1988. Si cercano i mandanti «occulti» del delitto, è una ipotesi che la Procura antimafia di Palermo ha stralciato dall’indagine che ha portato al processo in corso davanti alla Corte di Assise di Trapani. Mandanti «occulti» nel senso che la mafia ha avuto «appaltato» il delitto da altri? Il pm Ingroia non risponde, parla genericamente, si coglie che la mafia non ha commesso il delitto per conto di altri ma quanto gli altri avrebbe avuto interesse ad uccidere Rostagno.
Si è cominciato così per la terza udienza del processo Rostagno. L’atmosfera in aula sembra distesa, ma nell’aria pesa la pubblicazione appena uscita su un mensile, “I quaderni de l’Ora”, un «dossier» dedicato al delitto Rostagno, dove si parla dell’indagine quasi mettendo in ombra l’ipotesi mafiosa oggi a dibattimento. C’è scritto che al contrario di Peppino Impastato che si trovò a cento passi dal boss mafioso Badalamenti, per Rostagno non fu così. E invece è provato che Rostagno era in mezzo ai lupi e i lupi lo hanno azzannato. I passi che dividevano Rostagno dalla mafia erano molto meno di cento. Editore di Rtc, la tv dove lavorava era quel tale Puccio Bulgarella, ora defunto, imprenditore edile, era uno di quelli che parlava con i boss palermitani, amico di Angelo Siino, il cosidetto ministro dei lavori pubblici del capo dei capi Totò Riina. Presto arrivano tensioni e clamori. Una udienza che via via si è caricata di tensione e clamore. La testimonianza di Maddalena, la figlia di Mauro, e quella di due carabinieri, investigatori della prima ora, testimonianze carichi di vuoti, che hanno lasciate domande senza risposta. Le testimonianze dei due investigatori dei carabinieri, in particolare del generale (in pensione) Nazareno Montanti, hanno presentato aspetti clamorosi, del genere che si poteva indagare da subito, si potevano prendere di mira immediatamente gli ambienti mafiosi, ma non lo si è fatto, e il delitto Rostagno per 22 anni è rimasto qualcosa di vago, alla fine come se fosse irrisolvibile. Come se le indagini dovevano fermarsi nell’istante esatto in cui si scopriva l’omicidio. E la pista della mafia è finita «sbeffeggiata». E gli interventi in tv di Rostagno contro mafia, massoneria, politici corrotti. Non considerati? Ci sono le intercettazioni cominciate a un anno dal delitto, il verbale di sopralluogo redatto mesi e mesi dopo l’omicidio, per dire alcune cose.
Gli anni ’80 a Trapani
 Certo c’è da prendere consapevolezza piena di alcune cose: che negli anni ’80 in un territorio come Trapani dove la criminalità mafiosa «impazzava», con una innumerevole serie di omicidi, a indagare contro la criminalità organizzata c’erano, lo ha detto il gen. Montanti, 15 carabinieri. Poi ci sono gli aspetti di incredibile sottovalutazione, l’uso di un’auto rubata sei mesi prima del delitto dai sicari entrati in azione a Lenzi, non ha per nulla indotto Montanti, allora tenente colonnello, a sospettare che non potevano essere dei «balordi» come lui pensava ad avere ucciso. E poi perchè avrebbero ucciso? «Perchè Rostagno aveva scoperto la “malamministrazione” dentro Saman». E quindi le irregolarità che sarebbero state commesse da Cardella. Le difese hanno cercato di sfruttare questo «canale», un difensore, l’avv. Mezzadini, pur di inseguire altre piste, fuori dalla mafia, ha finito con il tirare fuori una vicenda personale di Maddalena Rostagno, rinnovandole in modo «gratuito» un dolore mai sopito. 
La voce di Mauro Rostagno. L’udienza è cominciata con la voce di Mauro Rostagno. Nessun sortilegio. La Corte di Assise ha acquisito gli spezzoni di un documentario dove ci sono le immagini girate dall’operatore di Tele Scirocco, Agostino Occhipinti, la sera del delitto. Immagini che servono al processo, che sono poste tra un intervento di Mauro e un altro, per questo riecheggia la sua voce in aula durante la proiezione che dura pochi minuti, ma sono quelli che servono per ascoltare pezzetti degli editoriali fatti da Rostagno a Rtc, quelli dove parlava del traffico e lo spaccio di droga a Trapani, «ma i politici dice si interessano ad altro», poi a seguire le immagini di quella Duna sforacchiata dei colpi sparati dai killer. Vito Mazzara, l’imputato accusato di avere ucciso Rostagno, presente in aula, dentro la cella, sembra guardare da un’altra parte ma dovunque volge lo sguardo trova gli schermi sistemati nell’aula bunker «Giovanni Falcone» del Palazzo di Giustizia e che trasmettono quei fotogrammi. Poi continua a parlare Mauro: «Trapani quarta in Sicilia nella classifica dei morti ammazzati», era il 1988, tra qualche giorno sarebbe toccato anche a lui. L’ultima immagine è il sedile della Fiat Duna dove era seduto Rostagno quando lo uccisero. Una macchia di sangue, poi il filmato viene stoppato.  
Maddalena sul pretorio. Sembra più magra del solito, e forse lo è. Maddalena Rostagno aveva 15 anni quando il 26 settembre 1988 le uccisero suo padre, Mauro. Di buon mattino ha messo piede con il suo avvocato, Carmelo Miceli, nell’aula bunker «Giovanni Falcone», la si vede piegata sul tavolo a parlare con il suo difensore di parte civile. Ieri è toccato per prima a lei salire sul pretorio davanti ai giudici della Corte di Assise, per raccontare quei giorni lontani quasi 23 anni. In questi giorni c’è chi le ha chiesto 24 ore per preparare un nuovo dossier (giornalistico) sulla morte di Mauro Rostagno, a lei non le dettero neppure un millesimo di secondo per potere salvare la vita al padre. È tesa, ma non si tira indietro a nessuna domanda. Racconta la vita con suo padre, in giro per il mondo, le scelte quasi di povertà, e di aiuto ai meno fortunati, ma assieme la fermezza dell’uomo che voleva da lei quello che qualunque genitore può volere per una figlia di quella età, e cioè la regolare frequenza scolastica. Quel 26 settembre 1988 ha dovuto ricordare ai giudici la discussione avuta in mattinata con suo padre, lei non voleva andare a scuola e non ci andò, «mi incrociai con lui ad ora di pranzo», non lo dice ma si capisce che i due non si parlarono: «Fu l’ultima volta che lo vidi».
Ha ricordato che la sera era nella sua stanza dentro il cosidetto «Gabbiano» della Saman, la residenza dei dirigenti della comunità, «ho sentito i colpi di arma da fuoco, poi qualcuno entrò dentro spalancando la porta e gridando forte il nome di mia madre Chicca, dissi che non c’era e che era negli uffici». Il racconto è frenetico: «Sono uscita fuori, sono andata evrso gli uffici, vidi Monica Serra, sapevo che lei doveva tornare con mio padre da Rtc, guardai intorno e non vidi Mauro, Monica stava abbracciata ad uno, mi disse lei che c’era stato un incidente. Non ricordo se lei fosse sporca di sangue, ma lo era mia madre che io incontrai nella stretta stradina fuori dalla comunità quando mi fermarono impedendomi di raggiungere l’auto di mio padre ferma 400 metri più avanti, mia madre mi abbracciò aveva le mani sporche di sangue».
Monica Serra è testimone oculare di quel delitto. Fu sospettata di non avere detto tutta la verità. Lei e Maddalena sono rimaste in contatto: «Non le ho mai chiesto nulla di quegli istanti, non ne ho mai sentito il bisogno perchè ho sempre considerato come vera la versione che lei ha raccontato». Con suo padre ricorda di avere parlato di alcune cose in particolare, come l’indagine sul delitto del commissario Calabresi, per la quale Rostagno ricevette una comunicazione giudiziaria, l’indagine milanese sui mandanti del delitto da cercare dentro l’organizzazione politica Lotta Continua della quale Rostagno fu tra i dirigenti: «Mio padre lo disse a me e l
o ha ripetuto anche in tv, lui e Lotta Continua non c’entrava nulla con quel delitto. Mauro mi chiamò mi disse che voleva essere sentito al più presto per testimoniare questa estraneità».Le domande la portano a ricordare i contrasti, improvvisi, tra suo padre e Francesco Cardella, i fodnatori della Comunità: «Lo ricordo quel foglio scritto a mano, diceva a mio padre sostanzialmente falso, inopportuno, indelicato, così mio padre fu invitato da Cardella a lasciare il Gabbiano dentro la Comunità per una intervista che aveva fatto a King, intervistato da Claudio Fava, una bellissima intervista ma non aveva citato Cardella e Cardella lo accusò in questa maniera».
Ma chi era suo padre, chiede il pm Antonio Ingroia (nel pomeriggio ha poi continuato il pm Francesco Del Bene): «Era il terapeuta della famiglia, della comunità, del giornalismo, lo vedevo in tv, nei servizi importanti e quando andava in giro a fare parlare la gente, quando scoprì che un gruppo di ospiti della comunità e che lavoravano con lui a Rtc erano tornati a spacciare droga, li cacciò dalla tv e lo vidi piangere, mio padre era deluso, teneva al suo lavoro di giornalista e a quello in comunità». Smentisce che il padre poteva essere «depresso» dopo quel giro di droga scoperto dentro la comunità, è scritto in un verbale: «Non posso avere detto questo perché la parola depresso non rientra nel mio linguaggio, non poteva mai essere un comportamento di mio padre, poteva essere semmai deluso».
Poi le domande entrano nei temi del processo. La storia del traffico di armi che Rostagno avrebbe scoperto prima di essere ucciso, svelata nel 1996 da un suo sedicente amico, Sergio Di Cori, «nessuno mi ha mai confermato che vi era conoscenza diretta tra lui e mio padre, lui si è presentato come un giornalista che si trovava in America, era grottesco come personaggio». E legata a questo fatto una cassetta sparita dal suo ufficio a Rtc: «Per quello che ricordo lui teneva sul tavolo una cassetta audio e non video con su scritto non toccare». Questa non si trovò più, ma anche un’agenda: «Dentro la borsa di mio padre quella che fu trovata sull’auto non c’era alcuna agenda, un bloc notes, mi sembra strano che lui facendo il giornalista non ne facesse uso». L’avvocato di parte civile della Saman, Elio Esposito introduce il tema del ruolo di Cardella quel giorno: «Non c’era quel giorno era a Milano, lo vidi a sera tardi, ci portò con la sua Bentley». Ma l’auto di solito non stava ferma dentro Saman? E come riuscì ad uscire se c’era la Fiat Duna che bloccava il passaggio? «Non lo so». Ma l’auto quella volta Cardella non l’aveva lasciata a Lenzi, l’aveva lasciata in aeroporto a Palermo. Provvidenzialmente. 
I carabinieri testimoni.  Poi è stata la volta dell’ex comandante del nucleo operativo dei Carabinieri l’allora tenente colonnello, oggi generale, Nazareno Montanti. Quando si dice i casi della vita. Ha ammesso che conosceva Rostagno, lo aveva conosciuto a Milano e lo aveva reincontrato a Trapani, meno di un anno dopo dal delitto andò via da Trapani lasciando le indagini che cominciarono secondo una pista precisa, «delitto maturato dentro la Saman». Non si fecero nemmeno le intercettazioni. Cominciarono quasi un anno dopo il delitto, il 13 maggio 1989, e sempre relativamente alla Saman. Ha raccontato che vide Rostagno arrivare in ospedale portato dall’ambulanza, «gli dissi vai Mauro che ce la fai, poi seppi che era morto». Delitto di mafia? «Quel fucile scoppiato per terra ci face pensare che non potevano essere dei professionisti. Rostagno era un galantuomo poteva avere scoperto delle irregolarità dentro Saman sulle quali noi già indagavamo». E poi le cartucce trovate per terra, tre inesplose erano satte «ricaricate», «roba da cacciatori che vogliono risparmiare» risposta secca del generale. A pagina 13 del rapporto firmato dal col. Montanti il 26 novembre 1988 sul delitto Rostagno la pista mafiosa (parole del pm Del Bene) «viene sbeffeggiata»: «Non c’entra la pista mafiosa tanto cara a certi organi di informazione e ai responsabili della Saman». «Noi – aggiunge – non avevamo nulla sulla pista mafiosa». Il pm chiede se ha ricordo degli interventi in tv di Rostagno: «Io non li ho mai sentiti perché tornavo a casa la sera tardi». Ma avete mai pensato ad acquisire quelle cassette? «Fino a quando c’ero io no». Montanti, offre molti non ricordo, molte le sorprese. Quando uno dei difensori di parte civile gli ha chiesto su quali armi sono state usate per uccidere Rostagno e gli ha parlato di un revolver, lui ha risposto dicendo « perché c’era un revolver?». Ma perché quei ritardi? Perchè il mancato coordinamento con la Procura? Il generale Montanti ha parlato del procuratore dell’epoca, dott. Coci, «era inavvicinabile non gli si poteva parlare».
Altro teste, l’odierno luogotenente, allora brigadiere, Beniamino Cannas. Conosceva Rostagno, ha detto che i due spesso si parlavano e si vedevano, ma sul’oggetto delle discussioni è stato vago, ha saputo solo dire che «Rostagno aveva un modo nuovo di fare giornalismo». E sulle indagini. Poco o nulla di veramente importante, ha detto che sarebbero leggende alcune circostanze, l’incontro a Palermo tra Falcone e Rostagno, raccontato da Alessandra Faconti, amica di Mauro, «la sentimmo ma non ce lo disse», la storia della cassetta, «mai vista», poi si corregge, «cercata e non trovata». Alla fine punta il dito contro Cardella. Un giorno mi parlò a lungo, si lamentava di una nostra indagine sui conti di Saman e mi parlò di Rostagno, mi disse che si era messo strane idee in testa, voleva fare il senatore». Ma a lui Rostagno si dice che aveva espresso preoccupazione, «è vero – chiede un legale di parte civile – che le avrebbe detto che gli avevano allungato la vita di un mese?». «È una cosa della quale si è sentito parlare a me disse solo se mi lasciano il tempo ti vengo a trovare, ma per me era un intercalare, una frase ad effetto».
Montanti e Cannas lo hanno dovuto confermare. Da investigatori sul delitto Rostagno nel 1996 divennero persone informate dei fatti, testi, nell’ambito delle indagini che l’allora procuratore di Trapani Garofalo riaprì sul delitto, puntando anche lui sulla pista interna, trovando poi quegli elementi che erano come nascosti, «la firma della mafia».

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