Confische alla mafia, una sfida per sperare
Ieri è stato il 15° anniversario della legge 109 sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie, approvata dal Parlamento il 7 marzo 1996, dopo la raccolta di più di un milione di firme da parte di Libera e di tante altre associazioni del volontariato. Una proposta di iniziativa popolare che ha di fatto sbloccato centinaia di beni strappati alle cosche – rimasti però inutilizzati o, peggio, ancora in mano ai clan – , oggi occasione di lavoro pulito e di iniziative per la comunità: cooperative sociali che coltivano migliaia di ettari; case famiglia per minori e disabili; centri per immigrati, malati psichiatrici, ex tossicodipendenti; luoghi di aggregazione giovanile; parrocchie e uffici diocesani; sedi culturali e associative. Molte di queste, dal Nord al Sud, saranno aperte da domani per una settimana di visite guidate e altre iniziative. La settimana, dal titolo ‘Prendiamoci bene: è Cosa Nostra’, nasce ancora una volta dalla collaborazione tra Libera, associazioni, scuole, parrocchie, scout. Tra gli appuntamenti in Calabria, a Isola di Capo Rizzuto nella villa che ospiterà colonie estive; in Campania a S.Cipriano d’Aversa, nella casa famiglia per malati psichiatrici della cooperativa ‘Agropoli’.
«Chi l’avrebbe detto… Invece in questi anni in tanti hanno ‘fatto’, si sono messi in gioco. E ora in questi territori si sta coltivando il futuro. Perché la speranza è vedere un futuro che non sia più il luogo della paura delle mafie, ma delle possibilità. E quindi del cambiamento. Pur tra mille difficoltà sui beni confiscati hanno vinto il ‘noi’ e il ‘fare’. E chi l’avrebbe detto…». Scandisce bene le parole don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, instancabile ‘globe trotter’ della legalità. «Chi l’avrebbe detto…», continua a ripetere percorrendo questi 15 anni della legge 109, e ricordando le tante iniziative realizzate. «Una legge della quale come italiani dobbiamo essere orgogliosi, che nasce da un’intuizione di Pio La Torre, assassinato dalla mafia, che fu tra i primi a capire l’importanza di combatterla sul piano economico. Una legge che poi Libera ha sostenuto raccogliendo un milione di firme affinché la confisca fosse potenziata dall’uso sociale».
Come nacque quell’idea?
È una legge della coscienza perché volle superare la logica dell’emergenza, dettata dagli omicidi e dalle stragi mafiose. La svolta fu puntare su continuità, concretezza e corresponsabilità. Fare sì che alle misure repressive, all’impegno dei magistrati e delle forze di polizia, si affiancasse un’attenzione costante delle istituzioni e l’impegno di tutti i cittadini. La raccolta di firme fu quello, i cittadini che entrano in gioco.
In questi anni sono davvero tante le iniziative nate sui beni confiscati. Che segnale danno?
Restituire alla collettività i beni che le mafie avevano tolto, dimostrare che proprio da lì si può ripartire per cambiare in profondità il volto dei territori. Questo si è rivelato un efficace strumento di mobilitazione sociale e di rinnovamento culturale.
Lei ripete sempre che non basta essere ‘contro’ le mafie. Ma bisogna essere ‘per’.
Questa è la proposta del ‘per’. La conversione di capitali, terreni e edifici, simbolo dell’illegalità, in beni di uso comune, ha alimentato una logica di giustizia sociale. Si è passati dalle parole ai fatti. Grazie al riutilizzo di questi beni si sono costruiti progetti per persone in difficoltà, percorsi di promozione sociale e culturale, si è dato spazio a servizi. Con una grande partecipazione di giovani. E questo ha legato l’Italia.
In che modo?
È stato il miglior modo per ‘festeggiare’ i 150 anni dell’unità d’Italia. Quante cooperative del Sud si sono gemellate, trovando sostegno, con realtà associative del Centro e del Nord. Ha unito l’Italia. Ancora una volta dalle parole ai fatti.
In prima fila le cooperative di LiberaTerra.
Coltivare il futuro vuol dire lavoro vero, pulito, ottenuto nella trasparenza e non con favori. La pasta, il vino, l’olio e gli altri prodotti biologici, ci ricordano che le mafie si combattono a partire dai diritti, dalle opportunità, dalle politiche sociali che spezzano i vincoli del bisogno, della paura e della rassegnazione.
Molte di queste realtà nascono su iniziativa e con la collaborazione convinta della Chiesa.
Il mondo cattolico è fortemente impegnato. Con iniziative concrete. È una grande gioia per me vedere il vescovo di Oppido-Palmi, monsignor Luciano Bux, chiedere un palazzo confiscato per le opere diocesane o un terreno dei Piromalli per farci nascere una parrocchia. O l’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro, mettersi direttamente in gioco come diocesi per il progetto della nuova cooperativa.
Don Luigi, davvero “chi l’avrebbe detto…”.
Già, chi l’avrebbe detto che in gran parte delle università si potessero tenere master o corsi sui beni confiscati. O che in migliaia di scuole si potessero svolgere progetti su questi temi. O ancora che migliaia di ragazzi ogni anno passassero parte delle vacanze a lavorare sui beni strappati alle cosche. Chi l’avrebbe detto che sarebbe nato questo ‘bel mondo’ di collaborazione sui territori tra istituzioni, prefetture, chiesa, associazioni.
Le mafie non sono rimaste in silenzio, e spesso hanno reagito violentemente.
Non dobbiamo enfatizzare, ma certamente campi di grano sono stati bruciati, olivi tagliati, vigneti distrutti. Ma non si è fatto un passo indietro. Anzi se ne sono fatti due in avanti. E insieme, perché ogni volta abbiamo trovato tanta gente che non ci ha lasciati soli.
Insomma don Luigi, i beni confiscati sono molto più di quello che appaiono.
Sostengono lo sviluppo del nostro Paese, ma questo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e politici che vivano fortemente nelle loro coscienze il bene comune. Ci vuole professionalità e coerenza morale da parte di tutti. Queste piccole iniziative sui beni confiscati sono servite a liberare quelle terre ma anche a liberare molte persone.
* tratto da l’Avvenire
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