A difesa della Costituzione se non ora quando?
Di fronte ad un Presidente del Consiglio che dice “questa volta nessuno mi potrà fermare”, usando tono e parole da resa dei conti più adeguati ad un film d’azione degli anni ’80 (un brutto film, tra l’altro) che ad un civile dibattito istituzionale, le possibilità sono poche. Una è pensare che abbia ragione, che faccia bene, che questo piglio deciso possa cambiare in meglio il paese. Chi pensa ciò, è pregato di uscire ora di casa, e di guardare quel pezzettino d’Italia che gli sta attorno. Vede un paese sereno, speranzoso, che guarda con ottimismo e fiducia al domani?
Se sì, allora credo sinceramente che faccia bene a stare lì dove si trova, a lasciare che il Presidente del Consiglio vada avanti pretendendo che nessuno lo fermi. Stia lì, per favore, perché se sta lì forse farà meno danni. Chi invece vede un paese stanco, stremato, impaludato in una crisi economica e, soprattutto sociale, forse dentro di sé sente di voler fare qualcosa, qualcosa che serva, ma non sapendo bene cosa fare, esita. Oppure discute, cerca di capire, si confronta: sta fermo, però dialoga con chi gli sta attorno tentando di trovare una soluzione. Entrambi gli atteggiamenti hanno una cosa in comune, però: si resta fermi mentre chi dice “questa volta nessuno mi potrà fermare” va per la sua strada, con al seguito i servitori che è riuscito ad arruolare o quei cittadini che, bontà loro, sono convinti che faccia bene.
Noi non pensiamo che un Presidente del Consiglio che dice “questa volta nessuno mi potrà fermare” abbia ragione. Noi pensiamo, con tutte le umane imperfezioni delle nostre parole e dei nostri intenti, con tutta la confusione, l’incertezza, le contraddizioni, le paure del caso, che un discorso del genere sia eversivo. Eversivo perché quel “nessuno” comprende pezzi di istituzioni come Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, Parlamento, Presidenza della Repubblica; comprende pezzi del paese come l’Università, le redazioni dei giornali, i blogger, i teatri. E queste cose non sono “nessuno”: sono ciò che contribuisce a rendere l’Italia una democrazia.
E, quando si parla di istituzione, bisogna ricordare che sono ben più importanti delle persone che le rappresentano. Sono edifici i cui inquilini cambiano periodicamente, magari dimostrandosi non all’altezza, ma le fondamenta di questi edifici devono essere maneggiate con estrema cautela: di sicuro non possono essere trattate come un ostacolo dai rappresentanti di altre istituzioni. Ogni volta che ciò succede esse vacillano, e ogni volta si rischia un crollo. E in Italia, negli ultimi vent’anni, esse hanno vacillato di continuo, tanto che ormai molti pensano che sia normale. Invece non lo è, non lo è mai. Non è con questo spirito che sono state erette. È per questo che abbiamo deciso di mobilitarci.
Noi, i nostri dubbi, le nostre paure, ma anche le nostre speranze, la nostra sofferta aspirazione ad un paese in cui il domani non sia un orizzonte carico di angoscia e l’oggi una cappa asfissiante. Noi, gli errori che probabilmente commetteremo, ma che ci daranno la possibilità, affrontandoli strada facendo, di diventare persone migliori. Si può pensare che le manifestazioni non servano, che non serva mobilitarsi, perché manifestare, protestare sono altra cosa rispetto alla politica. Ditelo agli egiziani. Ditelo ai tunisini, agli albanesi. Ditelo a chi è dovuto arrivare alla disperazione più nera e totale, prima di trovare la forza di superare le divisioni, le perplessità e i dubbi, peraltro legittimi, anzi.
Perché non si tratta, ora, di stare dalla parte giusta, di capire chi sono i buoni e chi i cattivi, come se esistesse una linea netta che li separa. Si tratta, più semplicemente, di immaginarci da qui a venti, trent’anni, e di immaginare quale Italia vorremo raccontare ai nostri figli e ai nostri nipoti, e di pensare a che cosa risponderemo quando ci verrà chiesto “tu dov’eri?”, “che cosa facevi?”
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