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Beni confiscati: normative e la sfida del riutilizzo sociale

Di Anna Foti il . Calabria, Progetti e iniziative

La più grande holding della città di Reggio Calabria. Attualmente potrebbe essere l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alle mafie con sede in riva allo Stretto da quasi un anno. Oltre 1 miliardo di euro di valore i beni in gestione, 150 le amministrazioni giudiziarie correnti. Vi sono beni di ogni tipo: danaro, incamerato dal fondo unico della Giustizia, per molti un buco nero, dipinti, gioielli, terreni, casolari, ville, appartamenti, imprese agricole, edili, dei trasporti. Poi ancora, di ultima ma ormai consolidata generazione, anche aziende di catering e ristorazione, intermediazione, settore immobiliare, partecipazioni societarie.

A fotografare con chiarezza e puntualità la situazione Vincenzo Giglio, presidente del settore delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, e Antonino Dattola, amministratore giudiziario, nell’ambito del primo incontro, svoltosi presso la Piccola Opera Papa Giovanni a Reggio Calabria,  del corso intitolato ‘Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie’ promosso dall’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), il centro Servizi al Volontariato dei Due Mari di Reggio e Libera.

Il primo di quattro momenti settimanali di formazione informazione, che culmineranno nell’incontro conclusivo con il direttore dell’Agenzia il prefetto Mario Morcone il prossimo 11 marzo, in un ambito che punta molto sul volontariato e sulla componente sociale, non potendo nella stessa misura contare sulla coerenza della politica che molto enuncia i principi di aggressione ai patrimoni mafiosi per restituire il maltolto e poco investe concretamente per sostenerne la riutilizzazione sociale. L’iniziativa si svolge in parallelo anche a Gioiosa Ionica.

Un sistema sbilenco che non fornisce risorse alle amministrazioni locali e al tessuto produttivo e sociale del territorio su cui insistono i beni, che non snellisce le procedure, che non abbatte i costi accumulati in anni di illegalità per consentire una riconversione ripulita del cosiddetto avviamento mafioso, che non incentiva la capacità propositiva e progettuale, che non impedisce alle banche di ritirare i fidi quando lo Stato subentra ai mafiosi, che non sostiene i fornitori nel mantenere le commesse presso le aziende in fase di ripresa dopo il sequestro.

Manca dunque una politica che si accolli il cosiddetto prezzo della Legalità. Tutte questioni e criticità riscontrate dagli operatori del settore che invocano l’aiuto degli attori sociali proprio di fronte ad un pubblico composto da rappresentanti di associazioni e cooperative sociali, potenziali assegnatari dei beni confiscati e protagonisti di quell’uso sociale che la legge auspica ormai dai 15 anni.

Unici in Europa a disporre di questo strumento di aggressione dei patrimoni, i giudici italiani fanno fatica anche a spiegare ai tribunali d’Europa cosa si intenda eseguire sul territorio di loro giurisdizione una confisca di beni di presunta provenienza illecita di cittadini italiani giudicabili socialmente pericolosi. Da qui la questione, tutt’altro che emergente, dell’armonizzazione della normativa europea in materia, in modo da consentire la confisca anche al di là dei confini nazionali, ove necessario.

Ma andiamo ai dati recentemente illustrati da Magistratura Democratica a Cosenza. Su 11.234 beni sequestrati in Italia, la Calabria, con il 14%, è al terzo posto, dopo Campania (15%) e Sicilia, prima con il 44%. 1.544 beni sono stati sequestrati da Tribunali calabresi e Reggio Calabria è la prima provincia in Calabria: 948 immobili e 82 aziende. Seguono Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo. Gli immobili dati in gestione dall’Agenzia, dal marzo dello scorso anno ad oggi, sono 279. Circa 200 a Province e Comuni, 50 a ministeri e corpi militari dello Stato ed una ventina ad onlus e cooperative sociali.
Sequestro e contestuale nomina dell’amministrazione giudiziaria e criticità legate al mantenimento in produttività di aziende, la vera grande scommessa di riscatto e volano di occupazione.

Non solo aziende ma anche immobili sottratti alle famiglie mafiose non in fase definitiva la cui scommessa è rappresentata dal recupero del decoro e il riscatto da un destino di abbandono e degrado. Poi la relazione particolareggiata entro sei mesi dell’amministratore giudiziario stesso, tenuto a fotografare lo stato del bene o dell’impresa e a definirne le possibilità di ripresa o riconversione, stante la costante presenza di crediti vantati da terzi, come le utenze non pagate per anni, gravami di tipo reale come le ipoteche, situazioni di illegittimità dovute ad abusivismo.

Dopo tutto ciò, il decreto di confisca, misura di prevenzione patrimoniale che segue un iter diverso e autonomo rispetto al giudizio penale per reati di mafia a carico di coloro che non sono stati in grado di dimostrare la provenienza lecita dei suddetti beni, nella loro diretta o indiretta disponibilità, o di giustificare la sproporzione rispetto al reddito dichiarato, e a carico dei quali esistono dei fatti dimostrativi meno pregnanti rispetto alle prove, quali sono gli indizi di appartenenza al circuito mafioso, e che sono giudicabili socialmente pericolosi e pertanto destinatari di una misura di prevenzione personale.

Da ciò si desume che anche gli esiti dei due iter misura di prevenzione patrimoniale e personale, anticamera del processo penale dove gli indizi non bastano più e servono le prove di colpevolezza non indizi di appartenenza, potrebbero non coincidere e la misura patrimoniale rimanere in piedi anche in assenza di prove di commissione di reati di mafia. Ecco l’iter di sottrazione di unità di patrimonio illecitamente accumulate, fondato sulla notevole presunzione posta in capo al giudice della Prevenzione della natura illecita di beni di cui non si sia riusciti a dimostrare la legittima provenienza.

L’iter è avviabile anche verso ascendente, discendente, coniuge, persona stabilmente convivente, parenti entro il sesto grado e affini entro il quarto, ossia familiari cui siano stati fittiziamente intestati (la nullità di tali atti di trasferimento è stata introdotta dalla legge 94 del 2009). La confisca è applicabile nei confronti dei defunti, atteso il principio di illiceità del bene in sé, entro i cinque anni dal decesso. Uno strumento fondamentale attualmente solo parzialmente realizzato e che, pur avendo raggiunto importanti risultati sul fronte dei provvedimenti di confisca, risulta ancora molto carente sotto il profilo del riutilizzo sociale.

E quando si parla di confisca nei termini finora illustrati, il riferimento è appunto alla misura di prevenzione patrimoniale o cosiddetta reale ex art. 2 ter, comma2 legge 575 del 1965 (cui poi è seguito l’istituzionalizzazione dell’uso sociale con la legge 109 del 1996) non dunque alla confisca penale, ossia alla misura di sicurezza patrimoniale ex art. 240 c.p.. Questa ultima interviene in chiave accessoria in caso di condanna per le cose che servirono o furono destinate alla commissione del reato o ne rappresentano il profitto o il prodotto o per il loro valore equivalente, se sia impossibile identificarle. Anche se, in entrambi i casi, trattasi di oggetti che divengono pericolosi in sé, perché frutto di reato o perché non dimostrata la provenienza lecita e considerato il soggetto socialmente pericoloso (pendenza di un procedimento per applicazione di misura di prevenzione personale che potrebbe e avere esito diverso e non inficiare la confisca), il principio ispiratore prevalente della misura di prevenzione rimane quello ablativo e punitivo, piuttosto che quello preventivo della confisca penale.

Tale dimensione preventiva è infatti predominante nella confisca penale, quale misura di sicurezza che agisce post delictum, dopo la commissione e l’accertamento del fatto delittuoso. Analogo principio opera nel caso del sequestro preventivo ex art. 321 c.p.. Trattasi di
un provvedimento provvisorio e cautelare che pone sul bene un vincolo di indisponibilità.

Altro strumento, più snello ed efficace a dire degli operatori, sintesi di entrambi i principi preventivo e repressivo, è quello della confisca ex art. 12 sexies legge 356 del 1992. Uno strumento tutto interno al giudizio penale, secondo il quale in caso di condanna per mafia, si confiscano tutti quei beni sproporzionati sulla cui provenienza lecita non vi è prova. Tale confisca è rimasta per molti anni nel cassetto, inapplicata.

Da un’intuizione della Procura generale di Reggio Calabria, nel 2000 nasceva la virtuosa prassi di rendere concreta, attraverso sinergie e collaborazioni poi confluite nel primo protocollo operativo siglato nel 2006, la normativa approvata nel 1992 relativamente ad una più snella procedura di sequestro e confisca dei beni  appartenenti alle famiglie mafiose, rimasta per anni inutilizzata.

Ad oggi la Procura reggina continua a rimanere il punto di riferimento per tutte le altre procure d’Italia, atteso che questa prassi è strumentale all’obiettivo prioritario della lotta al crimine organizzato ossia all’aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati. E in questa ottica sono in corso, presso la stessa Procura Generale reggina, momenti di confronto e scambio, presieduti dal Procuratore Salvatore Di Landro, tra i pionieri di questa prassi insieme ai magistrati Fulvio Rizzo e Francesco Scuderi. Con la collaborazione del procuratore Capo della Repubblica Giuseppe Pignatone e di autorevoli rappresentanti delle Forze dell’Ordine, in sede i questi incontri si sta procedendo al riesame e al rinnovo del Protocollo d’Intesa stipulato il 12 gennaio 2006 per il coordinamento delle indagini dirette all’applicazione della misura di sicurezza della confisca ex art,. 12 sexies L. 356/92. L’applicazione dell’art 12 sexies, eseguito contestualmente o subito dopo l’esecuzione delle misure cautelari personali nei confronti degli indagati di appartenenza ad una organizzazione di stampo mafioso, è infatti l’oggetto del concordato tra la Procura Generale di Reggio Calabria, le Procure della Repubblica di Locri, Palmi e Reggio Calabria, anche quale D.D.A. e la Procura Nazionale Antimafia.

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