Germanà:«Rostagno ucciso dalla mafia»
Rino Germanà, oggi questore a Forlì, nel 1988 era capo della Mobile, e pensò subito che ad uccidere Rostagno era stata la mafia. Ci sono voluti 22 anni per portare a dibattimento la sua pista investigativa: «Non lo pensavo solo io che poteva essere stata la mafia, ma tutti quelli che lavoravano con me, le modalità di esecuzione del delitto ci hanno fatto subito sospettare del delitto mafioso».
Per anni le è stato “vietato” mettere piede in Sicilia, ogni tanto ci ritorna, cosa prova?
«È una cosa bella, io sono siciliano ed ho tanti ricordi, è poi commovente incontrare persone che magri non vedi da anni, vede nel nostro mestiere si vive tanto di sentimenti, di passioni, queste sono cose che emozionano, certo ci segnano anche perchè ci rendiamo conto reincontrandoci che il tempo passa».
Lei è sfuggito ad un agguato dei mafiosi più pericolosi, la cosa che non riuscì a Rostagno.
«Io sono stato fortunato, penso che la vita di ognuno è segnata dal destino, scoprire che chi voleva uccidermi e chi ha ucciso Rostagno è stata la criminalità organziata e mafiosa, dovrebbe portare tutti a ribadire e confermare la volontà perchè la criminalità organizzata debba essere sconfitta definitivamente, perchè non rappresenta un progresso civile e sociale. Tutti ci dobbiamo impegnare su questo fronte, ognuno con la propria responsabilità, specialmente a livello culturale».
A seguire questo processo ci sono alcuni studenti, che ne pensa?
«È una cosa positiva, la forza per battere la mafia deve essere culturale, questi processi servono a far comprendere ai giovani dove sta il bene e dove sta il male, questi giovani domani saranno anche amministratori, è bene che sappiano in che modo la mafia può presentarsi a loro, se avranno precisa questa percezione, la mafia non avrà vita facile».
Lei iniziò a indagare sulle connessioni tra mafia, politica e impresa, altri hanno reso concreto il suo lavoro e sono andati avanti, ma si è mai spiegato perchè esistono questi intrecci, solo gestione di potere?
«È una questione di uomini, se uno è delinquente riconosce in qualsiasi ambiente il suo omologo che vuole vivere comodamente non rispettando le regole».
I familiari
Mercoledì scorso – alla seconda udienza del processo Rostagno – ha fatto la sua comparsa in aula Chicca Roveri, la compagna di Mauro. Non vuole parlare, o meglio lei vorrebbe parlare ma il suo difensore, l’avv. Carmelo Miceli le ha consigliato di non concedere interviste fino a quando non sarà lei a deporre nel processo. Non nasconde però il sorriso, lo concede parlando con alcuni, seria invece ha guardato in volto Vito Mazzara, prsente in aula dietro le sbarre della cella, per caso si è ritrovata a sedersi a pochi metri da quella cella, non svela i pensieri che l’hanno attraversata. Mazzara ha colpito per la impassibilità mostrata durante tutta l’udienza ha chiesto e ottenuto dalla Corte di non essere nè ripreso nè fotografato. Si presenta anziano, da anni è in carcere, ma lo sguardo è quello fiero, fiero di un assassino quale lui è stato riconosciuto essere da diverse sentenze di condanna all’ergastolo. Chicca Roveri però non ha potuto seguire l’udienza, pur essendo costituita come parte civile, essendo indicata anche come teste, non potrà entrare nell’aula del dibattimento prima di essere chiamata rendere testimonianza. Stessa regola vale per tutti gli altri nelle stesse condizioni, come il vice presidente di Saman, Gianni Di Malta, anche lui ieri in a Palazzo di Giustizia.
A confronto polizia e carabinieri e le due piste d’indagine
L’udienza di mercoledì è stata dedicata a scandagliare i primi momenti investigativi successivi al delitto. Primo teste è stato il medico legale Nunzia Albano, eseguì l’autopsia con il dott. Fallucca, deceduto da qualche tempo, ha confermato che Rostagno fu attinto da una rosa di proiettili esplosi da un fucile e da colpi di arma da fuoco sparati da una pistola, al capo quanto al torace, colpi precisi, per uccidere, non doveva uscire vivo da quell’agguato Rostagno. I «sussulti» il processo li ha cominciati a vivere subito dopo. Dapprima con il sostituto commissario di Polizia, Antonino Cicero, a seguire il questore Rino Germanà, e poi il luogotenente Bartolomeo Santomauro, il maresciallo Soggiu, e il colonnello Elio Dell’Anna. È venuto fuori il confronto tra le due «piste» seguite, da una parte la Polizia diretta da Germanà che privilegiò subito la matrice mafiosa, cosa ripresa e portata d’attualità nel 2009 con le indagini riaperte sotto la direzione dell’«erede» più importante di Germanà, il dirigente Giuseppe Linares, dall’altra parte i carabinieri che pensarono che il delitto poteva avere avuto altra matrice.
Il sostituto commissario di Polizia, Cicero: raccontai al ministero le notizie sui traffici d’armi e droga
Non sono mancati nel giro di queste testimonianze i «colpi» di scena. Cicero ha riferito del ritrovamento di un fucile che sembrava danneggiato (a proposito di quei pezzi di legno di fucile trovati sul luogo del delitto) nelle acque di Nubia, e questo avvenne nell’ottobre del 1988, «ma era troppo corroso per pensare che fosse in acqua da un mese». Poi ha aperto, ma non del tutto ( perchè non aveva tanto da potere dire) una porta su quello scenario che resta sullo sfondo del processo, e cioè l’ipotesi che Mauro Rostagno possa essere stato ucciso per essere entrato a conoscenza di «segreti» importanti: un traffico di armi gestito da mafia e pezzi dello Stato. Cicero per conto suo e nell’ambito di altra attività venne a conoscenza del fatto che strani traffici interessavano la provincia, droga e armi che avrebbero viaggiato insieme. Preferì relazionare direttamente al ministero dell’Interno su queste notizie, volò a Roma a parlare con un dirigente di Polizia ma in aula ha detto di non ricordare con chi parlò, nè fece relazione di servizio sulla circostanza. Notizia «pesante» perchè il sospetto era quello che per questi traffici venivano usate base militari.
Germanà: «Rostagno ucciso dalla mafia»
Lui alla Corte ha detto di avere raccolto questa segnalazione, non ricca di tanti riferimenti, di averla «notificata» ai superiori, ma poi di non averne saputo più nulla. Poi è toccato a Germanà. «Rostagno ucciso dalla mafia lo ritenemmo per le modalità seguite dal commando per ucciderlo – ha dichiarato – non erano sprovveduti e doveva essere un gruppo ben organizzato, che aveva usato una macchina rubata mesi prima e che fu fatta ritrovare bruciata 48 ore dopo il delitto in un cava dove sia noi che i carabinieri eravamo stati per ispezionarla. Queste non sono cose che fanno sprovveduti, ma gruppi organizzati, quella di Rostagno fu una esecuzione per un fatto grave, non per una vendetta». L’ex dirigente della Mobile ha fatto ampio riferimento al suo rapporto del dicembre 1988, all’attività giornalistica di Rostagno che per le sollecitazioni che dava alla società poteva avere dato fastidio, «spesso si scagliava contro la organizzazione mafiosa o contro gli episodi di malcostume e malagestione politica – ha dichiarato l’ex dirigente della mobile di Trapani». Tra i servizi citati da Germanà quelli sulla presenza nel territorio di imprenditori catanesi, i Rendo, Graci, e Costanzo, «che avevano contatti forti con la mafia trapanese». Ha «resistito» alle domande delle difese, avvocati Vito e Salvatore Galluffo per Vito Mazzara,
Giuseppe Ingrassia e Stefano Vezzadini, per Vincenzo Virga. Le domande degli avvocati Galluffo hanno cercato di portare Germanà su altre piste, hanno insistito su alcuni aspetti. Ad esempio se ritenesse possibile che la mafia potesse organizzare un agguato in una zona dalla quale era difficile fuggire via (la stretta stradina di Lenzi, a pochi metri dalla Saman), ma Germanà ha risposto che se la «mafia decide di uccidere qualcuno lo fa in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo. Ed ha ripetuto: «Il gruppo di fuoco che uccise Rostagno era qualificato e organizzato».
Giuseppe Ingrassia e Stefano Vezzadini, per Vincenzo Virga. Le domande degli avvocati Galluffo hanno cercato di portare Germanà su altre piste, hanno insistito su alcuni aspetti. Ad esempio se ritenesse possibile che la mafia potesse organizzare un agguato in una zona dalla quale era difficile fuggire via (la stretta stradina di Lenzi, a pochi metri dalla Saman), ma Germanà ha risposto che se la «mafia decide di uccidere qualcuno lo fa in qualsiasi circostanza di tempo e di luogo. Ed ha ripetuto: «Il gruppo di fuoco che uccise Rostagno era qualificato e organizzato».
La polizia indagò su Cammisa e Cardella
Sulle indagini che in massima parte in questi 22 anni sono state condotte dai carabinieri e sul fatto che vennero seguite tante piste, scartando quasi quella mafiosa, ha riferito il maresciallo dei carabinieri Bartolomeo Santomauro: «Era nostro dovere, e ritengo che l’abbiamo fatto, vagliare tutte le ipotesi, anche per la poliedrica figura della vittima. Ma lo scoppio del fucile, mi ha portato ad escludere l’ipotesi mafiosa». L’ex comandante del nucleo operativo dell’Arma, Elio Dell’Anna, che nel 1995 fece indagini nell’ambito della cosiddetta «pista interna», ha riferito sui controlli a carico di Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter, braccio destro di Cardella e inizialmente sospettato del delitto Rostagno. In quegli accertamenti la possibilità che il delitto poteva essere maturato in un ambito cosiddetto interno alla comunità (pista poi archiviata) l’ufficiale ha però inserito elementi che non escludono la mafia. Ha detto infatti che «Cammisa aveva diversi precedenti, era legato a mafiosi di Campobello, come l’avv. Antonio Messina, era stato arrestato per favoreggiamento nell’ambito di un delitto». Testimonianze veloci queste dei carabinieri, nella prossima udienza, quella del 9 marzo saranno sentiti invece quelli che indagarono sul delitto sin dal primo momento. Quelli che dovrebbero dire come mai brogliacci e intercettazioni fatte nell’ambito del delitto sono spariti, sono rimaste alcune intercettazioni che gettano fango e ombre, che riferiscono di litigi dentro la comunità, che è priovato nulla c’entrano e potevano entrarci col delitto.
Giovani studenti in aula a seguire il processo Rostagno
La fine dell’udienza ha visto il pm Gaetano Paci produrre documenti trovati nell’appartamento di Rostagno: è saltato fuori una sorta di «memoriale» sul delitto Calabresi, indagine che vide Rostagno indagato, ma i magistrati di Milano non fecero a tempo a sentirlo perchè fu ucciso. Lui voleva parlare e quello che voleva dire lo aveva scritto: escludeva che Lotta Continua, il movimento di cui aveva fatto parte, mai avrebbe potuto compiere delitti. Le difese vorrebbero portare il delitto forse verso questo versante, ma il pm li ha anticipati, «pista sondata, niente riscontri». In quel memoriale Rostagno un cosa l’ha scritta a chiare lettere: “il delitto non fa parte della mia concezione di vita”. regola che purtroppo non vale per tutti. Ultima notazione. In aula a seguire il processo c’era un folto gruppo di studenti del Liceo Scientifico Fardella di Trapani. Partecipano ad un progetto di educazione alla legalità condotto dalla commissione comunale Pari Opportunità. Con loro si è fermata a parlare l’avv. Enza Rando che assiste l’associazione Libera nel processo, si è costituita parte civile. Per i ragazzi è complesso seguire il processo ma la scelta di essere presenti comunque è stata apprezzata dal presidente della Corte, il giudice Angelo Pellino, che a proposito di “processo” ha ricordato agli studenti come siano fuori luogo le polemiche di questi giorni, a proposito di chi parla di processi giusti ed equi: “La parola processo – ha detto Pellino ¬- già da se contiene i concetti di equità e giustizia”. A buon intenditore poche parole.
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