Alfio Laudani mandante dell’omicidio Rizzo
Il 24 febbraio 1997 una telefonata anonima avvisa i carabinieri: a Misterbianco, in un parcheggio, c’è il corpo carbonizzato di un uomo. Quel cadavere è di Carmelo Rizzo, imprenditore organico ai Laudani, clan che impera a San Giovanni la Punta, comune in provincia di Catania sciolto due volte per mafia e regno dell’abusivismo edilizio. Ora il mandante di quell’omicidio ha un nome: Alfio Laudani, capo della cosca dei “mussi i ficurinia”. Lo ha stabilito la terza sezione penale della Corte d’Assise d’Appello di Catania, presieduta da Antonio Maiorana, giudice a latere Marisa Acagnino, in contrasto con la sentenza emessa nel marzo 2009 in Corte d’Assise da Luigi Russo, che aveva condannato il boss per associazione a delinquere di stampo mafioso e per una serie di omicidi, assolvendolo per quello di Rizzo. La sentenza arriva a quattordici anni dalla morte di Rizzo perché i procedimenti a carico di Laudani sono stati più volte sospesi a causa della sua “finta” malattia (nel ’95 aveva avuto un ictus e poi aveva simulato una totale infermità) e per i ritardi nelle indagini. Laudani è iscritto nel registro degli indagati soltanto nell’aprile 2001, un anno dopo le dichiarazioni (gennaio 2000) del collaboratore Salvatore Troina, che si era autoaccusato dell’omicidio e aveva indicato nel boss il mandante. Nel 2002 viene chiesto il rinvio a giudizio di Laudani, ma la sua posizione viene stralciata dal procedimento principale per motivi di salute, nonostante le relazioni degli agenti penitenziari della Casa circondariale di Parma (dove Laudani è detenuto) e del Tribunale di Sorveglianza di Bologna dimostrino che il boss simula. Perché il processo arrivi al dibattimento si deve aspettare fino al 2009, quando l’ennesima consulenza medica attesta che il capocosca finge. Il processo di primo grado si conclude con l’assoluzione: Laudani non è il mandante di quell’omicidio eccellente. Pochi giorni fa la sentenza di condanna dei giudici di appello, che aggiunge un tassello importante alla geografia mafiosa del paese etneo, confermando il ruolo di primo piano di Rizzo all’interno del clan.
Chi è Carmelo Rizzo?
Considerato dalle forze dell’ordine prestanome dei Laudani sin dai primi anni ottanta, è un imprenditore edile che ricicla i soldi del clan e costruisce complessi residenziali con diverse società. Già nel ’92 il questore di Catania chiede per lui la misura della sorveglianza speciale e un anno dopo, nel decreto di scioglimento del Comune di San Giovanni la Punta, si fa riferimento ai legami tra Rizzo e i Laudani. Nel ‘96 finisce sotto processo per mafia e, nell’ambito dell’operazione “Ficodindia”, viene raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare in carcere, ma riesce a sfuggire alla cattura. Il Tribunale del riesame annulla l’ordinanza, ma la Cassazione la riconferma. Voci sempre più insistenti dicono che sta per collaborare con la giustizia. A quel punto Laudani dà l’ordine di eliminarlo. Rizzo è ucciso con due colpi di pistola alla testa e il suo corpo viene dato alle fiamme insieme ad un cumulo di copertoni. Perché di lui e delle verità scomode su mafia e colletti bianchi non resti più nulla. Il nome di Rizzo è stato al centro dell’affaire che ha coinvolto il sostituto procuratore di Catania Giuseppe Gennaro e che è tornato alla ribalta in questi giorni, dopo la pubblicazione di una vecchia foto che ritrae il magistrato insieme all’imprenditore. Gennaro nel ’91 comprò una villa bifamiliare a San Giovanni la Punta, costruita dalla “Di Stefano Costruzioni”, ditta di cui era socia la moglie di Rizzo. Nell’atto di acquisto, però, come venditore risultava il proprietario dei terreni, il cavaliere Vincenzo Arcidiacono. Un semplice prestanome, secondo l’accusa. Tanto che, di lì a pochi giorni, cedette l’area in cui sorge la villa alla Di Stefano. Dopo le dichiarazioni dell’ex Presidente del Tribunale dei minori Giambattista Scidà e del pm Nicolò Marino alla Commissione Antimafia e dopo le ammissioni di Arcidiacono, in pieno “Caso Catania”, Gennaro finì sotto inchiesta a Messina per concorso esterno in associazione mafiosa. Il procedimento si risolse con un’archiviazione, anche se i pm scrissero che Gennaro – ora in lizza per il posto di Procuratore capo a Catania – non aveva detto la verità dichiarando di non conoscere Rizzo.
La requisitoria del Procuratore generale Gaetano Siscaro
«Carmelo Rizzo non era uno qualunque. Era un membro di spicco dei Laudani, riciclatore e ministro dell’economia del clan. La sua eliminazione era straordinarissima amministrazione» e non poteva essere ordinata – come ha sostenuto la Corte di primo grado – da Domenico Sapia che nel ’97 era il reggente, ma solo dal capo della famiglia, cioè Alfio Laudani, ha detto Siscaro (anche lui candidato per il posto di Procuratore capo a Catania). C’è una regola ferrea di Cosa Nostra: l’omicidio interno deve essere sempre deliberato dal leader. Il mandante è stato Laudani. Lo hanno dimostrato le dichiarazioni di diversi collaboratori di spessore, come Giuseppe Torretti, Alfio Lucio Giuffrida, Antonino Calì, Salvatore Di Stefano, Mario Demetrio Basile e Salvatore Troina. E lo ha confermato la testimonianza – resa solo in appello – di un recente pentito, Giuseppe Di Giacomo, personaggio di spicco del clan, che decideva gli omicidi insieme al capocosca, già condannato con sentenza definitiva per 416 bis e per una serie di assassinii: Laudani, al vertice dell’organizzazione, ha “voluto e pianificato” l’omicidio, ordinando anche di bruciare il cadavere per farlo “scomparire del tutto”. La famiglia di Rizzo parte civile. Una nota curiosa: al Processo d’Appello si sono costituiti parte civile la moglie di Rizzo, Concetta Ferlito, e i tre figli. E la Corte ha accolto le loro richieste, condannando Laudani al risarcimento dei danni. «I familiari – dice l’avvocatessa Eleonora Baratta, che ha assistito con patrocinio gratuito tre di loro – a prescindere dal ruolo di Rizzo all’interno o all’esterno dell’associazione mafiosa, hanno subito una grave perdita e sono stati privati del riferimento affettivo e del sostegno economico».
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