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Cuffaro in carcere, fine di un vicerè

Di Lorenzo Frigerio il . L'analisi, Sicilia

Un cambiamento di vita radicale: è questo che da sabato pomeriggio deve affrontare l’ex senatore e già presidente della regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, 53enne originario di Raffadali, provincia di Agrigento. La seconda sezione penale della Corte di Cassazione, infatti, ha confermato la sentenza d’appello del processo contro le “talpe” della mafia nella Procura di Palermo, attribuendo a Cuffaro la piena responsabilità per il reato di favoreggiamento aggravato nei riguardi di Cosa Nostra e condannandolo a scontare i sette anni di reclusione, già inflitti al termine del secondo grado. Oltre al carcere, la sentenza della Cassazione comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e quindi la perdita dello scranno a Palazzo Madama.

L’attesa e poi il carcere

Al termine di una giornata convulsa, verso le 17.00 di sabato 22 gennaio, l’uomo politico siciliano si è presentato spontaneamente nel carcere romano di Rebibbia, dopo aver respinto la richiesta della moglie di aspettare almeno la formalizzazione dell’arresto, deciso a non prolungare la snervante attesa. Con un gesto di dignità – merce rara oggi al mercato della politica nostrana – Cuffaro si è consegnato spontaneamente nelle mani della giustizia. Ora i suoi legali apriranno la battaglia per la concessione degli arresti domiciliari, ma questa è un’altra storia.

La conferma della condanna per l’ormai ex senatore della Repubblica arriva non senza qualche sorpresa, poiché venerdì scorso, prima della sentenza, nel suo intervento il procuratore generale della Cassazione Giovanni Galati aveva domandato l’esclusione dell’aggravante prevista dall’art. 7 art. della L. 203/1991. Secondo il primo comma dell’articolo in questione «per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà».

In sostanza, il magistrato si dichiarava convinto del fatto che non si fosse raggiunta la prova che Cuffaro avrebbe favorito Cosa Nostra, mentre restava dimostrato il favoreggiamento nei confronti del coimputato Michele Aiello, al quale avrebbe riferito delle microscopie piazzate in casa del boss di Brancaccio, il primario ospedaliero Giuseppe Guttadauro, uno di quei colletti bianchi inseriti nelle cosche, già finito a processo per associazione mafiosa.

Infine il Pg Galati aveva chiesto alla Suprema Corte la riforma della sentenza d’appello con il contestuale rinvio ad un nuovo procedimento di secondo grado. Uno spiraglio di luce, al quale Cuffaro si era aggrappato disperatamente. Un’attesa fatta di preghiera assidua – il politico è un devoto credente della Madonna – ma ostentata sotto i flash dei fotografi: «Se ho saputo resistere in questi anni difficili è soprattutto perché ho avuto tanta fede e la protezione della Madonna».

Un’attesa trascorsa con pochi amici fidati e riempito dalle lunghe riunioni con i compagni del nuovo partito, fondato dopo l’uscita dall’Udc: Pid (Popolari di Italia Domani) che ora si trova senza una guida, nel momento in cui il presidente del Consiglio Berlusconi conta anche su questo appoggio per far continuare la legislatura in corso.

Dalla riforma alla conferma

Da sabato, anche Michele Aiello, anello di congiunzione con la mafia e prestanome di Bernardo Provenzano, finisce in galera. Con la pronuncia della Cassazione, Aiello si vede confermata la condanna a quindici anni e mezzo di carcere, mentre il sequestro dei suoi beni si tramuta in confisca definitiva: 80 milioni di euro di patrimonio per il potente ras della sanità privata in Sicilia che finiscono nelle casse dello Stato. In carcere anche il sottoufficiale del Ros, Giorgio Riolo, che deve scontare sette anni e mezzo di reclusione. L’altro protagonista delle “soffiate” ai boss sulle indagini della Procura di Palermo, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro resta a piede libero, dopo un anno e mezzo in carcere, grazie al condono e al termine del rito abbreviato prescelto: riconosciuto colpevole di favoreggiamento semplice, non aggravato dall’aver agevolato la mafia, è stato condannato a 4 anni e 8 mesi nell’ottobre 2010.

Ricordiamo che l’inchiesta aveva preso il via nel 2005, mettendo sottosopra il mondo politico siciliano e non solo: il presidente della Regione in carica veniva accusato, in combutta con altri uomini delle istituzioni – Riolo e Ciuro, ma anche il deputato regionale Borzachelli, già maresciallo dei carabinieri – di aver rivelato al boss Guttadauro della presenza delle cimici piazzate in casa, per carpirne le conversazioni con altri mafiosi.

All’epoca si aprì una battaglia in Procura tra i sostenitori della linea del capoufficio Piero Grasso, poi passato alla Dna, che sceglieva la contestazione del favoreggiamento aggravato e altri magistrati della Procura che avrebbero preferito l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il braccio di ferro allora fu vinto da Grasso e ora il verdetto della Cassazione sembra chiudere anni di polemiche. Il processo in primo grado si chiude nel gennaio del 2008 e Cuffaro è condannato a cinque anni di carcere, oltre all’interdizione dai pubblici uffici, mentre il favoreggiamento passa da aggravato a semplice.

Fioccano le polemiche per la foto in cui si vede un Cuffaro sorridente l’indomani offrire un vassoio di cannoli; va detto che lui smentirà sempre di aver voluto festeggiare il verdetto, sostenendo trattarsi di un dono rimasto nel suo ufficio, alla mercé di fotografi e giornalisti. Le polemiche comunque lo costringono alle dimissioni dopo pochi giorni, ma viene eletto successivamente al Senato in quota Udc. Nel frattempo il processo va avanti e il secondo round, in Corte d’Appello, apertosi a maggio 2009, termina ad agosto dello scorso anno: il favoreggiamento torna ad essere configurato nella sua ipotesi più grave e la pena sale da 5 a 7 anni.

Finale di partita?

Un esito di partita davvero imprevisto per Totò “Vasa Vasa”. Le sue ultime dichiarazioni prima di finire in carcere, rilasciate alla folla di giornalisti in attesa sotto l’abitazione romana, rappresentano la chiusura di un’epoca, che non ha certamente nulla a che vedere con il rabbioso scontro frontale che oggi la politica ingaggia con la magistratura: «è un’esperienza tremenda, che in me, però, rafforza sia la fiducia nella giustizia, sia la fede. Affronterò la pena come è giusto che sia, questo è un insegnamento che lascio ai miei figli..».

Dalle sue ultime parole traspare un legittimo orgoglio, tutto frutto dell’esperienza vissuta all’interno della Democrazia cristiana, nella quale militò fin da giovane e fino alla sua dissoluzione decretata prima dalle inchieste e poi dal voto: «è una prova certamente non facile, ma io sono stato un uomo delle istituzioni, e poiché anche la magistratura è una istituzione, io lo rispetto».

Finisce così l’epopea di un vero e proprio viceré, uno di quei puledri di razza cresciuti nella vecchia Democrazia cristiana che, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, aveva smesso i panni dell’intraprendente portaborse di Calogero Mannino per giocarsi in proprio, fino ad arrivare ai vertici della politica siciliana e italiana.

I giornali pubblicano le foto degli esordi sul palcoscenico nazionale, quando osò sfidare persino la platea di una delle staffette televisive antimafia più note, quella tra i programmi di Michele Santoro e Maurizio Costanzo, per prendere le difese della Dc. Allora Cuffaro, divenuto “Puffaro” in un’esilarante replica di Santoro, sembrava destinato ad una carriera senza infamia e senza lode. Invece, nel corso degli
anni, il politico di Raffadali ha saputo imporsi, passo dopo passo, fino ad arrivare in cima: da giovane consigliere comunale (aveva 18 anni) a navigato deputato regionale, per diventare, con maggioranze di segno opposto, insostituibile assessore regionale. Quella regione di cui diventa presidente a 43 anni, battendo prima nel 2001 Leoluca Orlando e poi Rita Borsellino nel 2006.  

Ora si attende a febbraio un nuovo verdetto: il processo lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. La richiesta dell’accusa è di dieci anni di reclusione mentre la difesa conta di far valere l’eccezione del “ne bis in idem”, cioè l’impossibilità di condannare una persona due volte per lo stesso reato.

In attesa di capire quello che succederà, resta ora da vedere che ne sarà del “cuffarismo” senza il suo interprete principale.

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