Caltanissetta, fondi neri e politici collusi
Da qualche giorno, la politica nissena si confronta con il contenuto delle dichiarazioni rilasciate ai magistrati della Dda di Caltanissetta dal noto imprenditore Pietro Di Vincenzo, in passato ai vertici della Confindustria regionale, attualmente detenuto a seguito di un’inchiesta che lo ha coinvolto la scorsa estate. Alcune testate giornalistiche hanno, infatti, pubblicato stralci dei verbali di interrogatorio, risalenti ad agosto. Di Vincenzo, stando al contenuto dei faldoni, confermerebbe, in gran parte, i sospetti che avevano condotto i magistrati di Caltanissetta ad approfondire la sua storia, personale e professionale, e quella della fitta ragnatela di contatti connessi al suo gruppo economico.
Tra gli appoggi istituzionali privilegiati dall’imprenditore, e citati di fronte agli inquirenti ci sarebbero Salvatore Cardinale, ex ministro delle Telecomunicazioni, e Rudy Maira, attuale deputato regionale in quota Pid. Ma l’imprenditore non risparmia neanche riferimenti al Partito Comunista, ai Democratici di Sinistra e alla Democrazia Cristiana, entità politiche che, a suo dire, averebbero conseguito notevoli contribuiti in denaro dal gruppo.
Non solo dazioni economiche ai grandi nomi della politica regionale: il sistema descritto da Pietro Di Vicenzo non avrebbe trascurato neanche le amministrazioni comunali della provincia di Caltanissetta, dal capoluogo a Gela. Stando alle sue parole, infatti, i finanziamenti occulti sarebbero stati essenziali per salvaguardare la sicurezza degli investimenti imprenditoriali compiuti dal gruppo da lui diretto, dopo il passaggio di consegne dal padre Andrea. Personaggi politici, quelli citati nel corso degli interrogatori, che dovevano necessariamente sostenere e favorire l’ascesa economica delle imprese del professionista nisseno, in grado di abbracciare molteplici settori, dalle costruzioni alle telecomunicazioni.
Dai verbali, inoltre, emergono alcuni contatti che Di Vincenzo avrebbe ottenuto tra i ranghi delle forze dell’ordine, con in testa il corpo della Guardia di Finanza: come confermato da riferimenti cifrati ritrovati all’interno degli schedari delle società dell’arrestato.
Secondo l’ex presidente dell’Ance Sicilia, infatti, senza la strutturazione di un oliato ingranaggio, incentrato sullo schema denaro in cambio di favori, difficilmente si sarebbe potuto ovviare a vincoli burocratici e perdite economiche.
Ma nella dimensione descritta da Di Vincenzo non sarebbe mancata la mano di cosa nostra, nissena e palermitana. Secondo i magistrati della Dda di Caltanissetta, l’imprenditore, in più occasioni, avrebbe operato di pari passo con i clan di cosa nostra, nonostante le due assoluzioni conseguite a fronte di altrettante accuse di associazione di stampo mafioso. Ma Di Vincenzo, nel confronto con i magistrati, appare netto e nega qualsiasi legame “illecito”, definendosi, al contrario, vittima delle organizzazioni criminali, destinatarie di pagamenti elargiti al solo scopo di impedire danneggiamenti ai tanti cantieri sparsi sull’isola e aldilà dello stretto.
Al contrario, l’imprenditore avrebbe ammesso le responsabilità del mondo bancario. Molti dirigenti e funzionari, infatti, sarebbero stati sempre informati del sistema messo in atto dal gruppo Di Vincenzo, anche rispetto ai mancati versamenti in favore dei lavoratori delle imprese controllate dall’arrestato, costretti a rinunciare a parte dei loro stipendi, essenziali, invece, per sostenere la contabilità occulta del gruppo.
Le parole pronunciate da Pietro Di Vincenzo, quindi, non trascurano alcun settore strategico: al contempo, la presenza di molteplici omissis tra gli atti d’indagine potrebbe promette nuovi sviluppi.
Trackback dal tuo sito.