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Un anno dopo Rosarno

Di Gaetano Liardo il . Calabria

Sono stati dipinti come criminali, e come tali sono stati trattati. In realtà  la violenza del crimine i migranti di Rosarno l’hanno subita sulla loro pelle. Ribellandosi all’arroganza di chi, in modo disumano, si arricchiva sul loro lavoro. Un anno fa scoppiava la rivolta dei migranti di Rosarno. Scesi per le strade della cittadina calabrese per urlare il loro no contro la sopraffazione. Vittime due volte. Impiegati come manodopera da imprenditori schiavisti per la raccolta degli agrumi. Umiliati nella loro dignità dalle bande di giovani rosarnesi orbitanti nella nebulosa della ‘ndrangheta. L’ennesimo sopruso, il tiro a bersaglio contro i migranti di ritorno dal lavoro nei campi, fece scattare la rivolta. E la successiva rappresaglia, costringendo le forze dell’ordine ad evacuare i migranti presenti nel paese. Quelle di Rosarno furono giornate di paura, terrore e follia. La caccia al “negro” che si sviluppò fu fomentata dalle ‘ndrine, e caldeggiata da politici fanatici. L’Italia si scopriva un Paese razzista e fanatico, e non solo per Rosarno. 

Ottime inchieste giornalistiche dimostrarono come lo schiavismo è diventato, nei fatti, il sistema di lavoro sul quale si regge l’agricoltura italiana. Nelle campagne calabresi, così come in Puglia, Campania, Sicilia, Basilicata. I migranti ne sono, tutt’oggi, il motore. Ma sono costretti a subire condizioni di lavoro disumane. Moderni schiavi sui quali si regge uno dei settori più importanti dell’economia italiana. Orde di disperati che sostituiscono gli italiani nel lavori sui campi, al prezzo di poche decine di euro, spesso mai ricevuti. Costretti a girovagare tra le campagne del sud come lavoratori stagionali. Senza tutele, senza garanzie, senza diritti. Uomini e donne a cui non è riconosciuto lo status di essere umano. Il moderno schiavismo si sviluppa, come sottolineato da Laura Galesi e Antonello Mangano nel libro “Voi li chiamate clandestini”,  proprio in quelle realtà che storicamente si sono battute per i diritti dei lavoratori. Città “rosse”, come Rosarno o Vittoria nel ragusano. Città che hanno dimenticato le antiche battaglie o che non considerano i migranti depositari di diritti.

Città, queste, che hanno lottato ma che si sono piegate al predominio delle mafie. Rosarno, contesa tra le famiglie Pesce e Bellocco. Vittoria, il cui mercato ortofrutticolo è controllato dai boss. Castelvolturno, dove si è consumata la strage dei migranti per mano dei camorristi del boss Setola.  In queste realtà sono stati proprio i migranti a sfidare l’egemonia dei boss. Denunciando e collaborando con le forze dell’ordine. Comportandosi da veri cittadini, nonostante vivano in Italia come “clandestini”. Un coraggio e una determinazione che, spesso, gli italiani non sembrano dimostrare. Scegliendo il quieto vivere piuttosto che il contrasto alle mafie e alle illegalità.

Dopo un anno la situazione non è cambiata. I migranti continuano a lavorare nelle campagne di Rosarno alle stesse condizioni di prima. Finita la stagione degli agrumi ricominceranno il tour delle campagne italiane. Foggia, il casertano, il ragusano, il trapanese. Un viaggio tra le miserie di un Paese disposto a chiudere gli occhi di fronte al moderno schiavismo.

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