Beppe Alfano, un giornalista scomodo
«Ieri il paese era avvolto da una cappa di piombo non solo per la calura, ma soprattutto per la grave tensione che l’episodio ha suscitato. La salma del giovane Lorenzo dunque è stata accolta solo dai parenti più stretti mentre tutti gli abitanti del comune tirrenico erano intanati in casa». E’ il 28 luglio del 1991 e a Terme Vigliatore (Me) il figlio del boss Pino Chiofalo, Lorenzo, viene trovato morto insieme ad un altro ragazzo, Maurizio Cambria, sulla spiaggia di Acquitta, mentre tutto intorno erano in corso i festeggiamenti per la festa della Santa Patrona del paese. A scrivere è Beppe Alfano, un insegnate con la passione per la politica e il giornalismo, che quel giorno si trovava nei dintorni con la famiglia. Ebbe inizio così, dopo l’attività in radio e tv locali, l’esperienza giornalistica di Alfano come corrispondente per un giornale regionale. Quelle sull’omicidio di Lorenzo Chiofalo, furono solo le prime righe di molti articoli che, in pochi anni, raccontarono al resto della Sicilia quello che stava accadendo nel comprensorio che circondava la città di Barcellona Pozzo di Gotto (Me): centro di potere nevralgico per mafie, massonerie deviate, illegalità di vario tipo che operavano in un regime di paura e silenzio. Beppe Alfano veniva ucciso diciotto anni fa, l’8 gennaio 1993, secondo quanto emerso dal processo, da Antonino Merlino su ordine del boss della “famiglia” di Barcellona, Giuseppe Gullotti.
Beppe Alfano nasce in una casa in cui, da sempre, si respira l’aria di una cultura di destra e milita negli anni nella Giovane Italia, in Ordine Nuovo, nel Movimento Sociale e infine ripone le sue speranze politiche, poi deluse, in Alleanza nazionale (che a Barcellona Pozzo di Gotto era incarnata nell’ astro nascente del politico, Domenico Nania). Alfano muore senza tesserino giornalistico (rilasciato postumo) come corrispondente di provincia, uno del quale, se non fosse morto probabilmente non si sarebbe mai scritto. Così come di tanti altri cronisti locali, giornalisti in trincea in territori governati dalle mafie e corruzione. Delle sue corrispondenze precise, di quell’integrità morale, di quell’onesta intellettuale e soprattutto di quell’intuito e quella conoscenza profonda di un territorio, che prima degli anni Novanta, era persino privo di un Tribunale e di una Procura, non avremmo saputo nulla. La provincia di Messina sino agli anni ’90 era ritenuta un luogo “tranquillo” ma sarà fra la fine del 1990 e il 1993 che tutti i nodi verranno al pettine. La provincia “babba” (sciocca, ndr) , com’era stata definita per intendere una “bassa densità di mafiosi”, si scoprirà (e ancora oggi si scopre) gradualmente un luogo in cui i mafiosi avevano già in mano la gestione delle principali attività economiche e gli appoggi politico – istituzionali.
LA “SCATOLA NERA” DELLA MAFIA MESSINESE
Un territorio caratterizzato da un fattore fra tanti: qui non governava una sola mafia ma un mix di interessi facenti capo a Cosa nostra palermitana, catanese, e alla ‘ndrangheta calabrese che aveva sede oltre lo Stretto. Negli anni Novanta però, saltarono gli equilibri che avevano sempre garantito, affari sicuri senza rischio, traffico d’armi e di droga, latitanze dorate (ricordiamo fra i tanti, i boss Michelangelo Alfano e Santo Sfameni, ma anche Nitto Santapaola, capomafia Catania e tanti altri in seguito). A contendersi il controllo del territorio “gli uomini di Pino Chiofalo” e quelli della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto, guidata in quel periodo da Giuseppe Gullotti. Chiofalo provò ad intensificare gli affari formando delle “ndrine” che controllano il territorio e finiranno per entrare in contrasto con gli affari dei “catanesi” e della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto, sempre molto attenta agli equilibri da mantenere con il clan dei Santapaola. Così prima e dopo l’arresto di Pino Chiofalo scattò la ritorsione verso “i venduti” coloro che avevano tradito la famiglia ed erano entrati nel clan rivale. Chiofalo è un personaggio chiave per la provincia poiché diventerà, dopo il suo arresto, uno dei primi collaboratori di giustizia di Messina. Alfano vede, indaga e racconta questa “la mafia in diretta”. «E’ una mattanza – scrive il 2 agosto del 1991– una mattanza che adesso per la prima volta non risparmia neanche le donne». Beppe Alfano diventa il cronista che meglio conosce il territorio, vicino alle fonti investigative e giudiziarie (collabora spesso con l’allora magistrato giunto del Nord, Olindo Canali, in seguito al centro di polemiche) segue con loro i tanti casi di “lupara bianca” e il ritrovamento di alcuni corpi di giovani «uccisi senza scarpe, con le mani e i piedi legati, bendati prima del corpo di grazia – scrive». Spesso Alfano e i carabinieri giungono allo stesso momento sul luogo di un delitto, poiché utilizza molto spesso fonti indipendenti dall’attività investigativa. Saranno la determinazione e la sua integrità morale a decretarne la morte. Molte le inchieste seguite da Alfano: dallo scandalo all’Aias di Milazzo (assunzioni clientelari e mancato pagamento di stipendi ai lavoratori) sino alle truffe Ue sul commercio degli agrumi, ed infine l’ipotesi, poi provata, che il boss Nitto Santapaola fosse latitante proprio nella cittadina di Barcellona Pozzo di Gotto. Tante le intimidazioni di cui è stato oggetto prima dell’uccisione: dalle “raccomandazioni degli “amici degli amici”, passando per un tentativo di corruzione, respinto dal cronista, sino all’incendio dell’autovettura.
ALFANO, 18 ANNI DOPO
«Non avrò pace finche non andranno in carcere anche i mandanti “politici” dell’omicidio di mio padre, quelli che si nascondono tra le istituzioni e i professionisti, il livello dei cosiddetti “colletti bianchi”». Così Sonia Alfano europarlamentare dell’Idv e figlia di Beppe ricorda e chiede giustizia diciotto anni dopo la morte del padre. Da un punto di vista giudiziario, nonostante i tanti misteri che circondano ancora il caso, per l’omicidio sono stati condannati il killer e il mandante mafioso: un lungo processo nel 1999 ha portato alla condanna a trent’anni di reclusione del boss locale Giuseppe Gullotti; nel 2006, poi la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 21 anni e sei mesi, come esecutore materiale, ad Antonino Merlino. Ma per la figlia del cronista il caso non si è chiuso. « […] Mio padre quando è stato ucciso stava indagando su una truffa agrumicola all’Ue, e sono certa che questo ha dato fastidio non solo ai boss. Inoltre come ha ammesso lo stesso procuratore dell’epoca, Olindo Canali, a Barcellona Pozzo di Gotto, il giorno in cui fu ucciso mio padre, c’era la presenza di Ros, Sisde e Sco: questo non credo sia casuale». Oggi a nel paese si svolgerà la giornata in memoria di Beppe Afano: una funzione religiosa si è svolta stamani al Duomo di Santa Maria Assunta di Pozzo di Gotto, nel pomeriggio si terrà un incontro – dibattito alle 17.30, al Palacultura “Bartolo Cattafi”. A quest’ ultimo appuntamento parteciperanno, tra gli altri, anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, l’eurodeputato Luigi de Magistris, il gip di Palermo Piergiorgio Morosini e Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, assassinato dalla mafia nel 1992.
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