«Mattarella e Addaura, depistate le indagini»
Una circostanza ormai tristemente e ritualmente tradizionale, come può essere la commemorazione per un delitto di mafia, diventa l’occasione per importanti dichiarazioni da parte del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, che subito rompono l’ovattata pausa festiva, scatenando agenzie di stampa e media nazionali. È quanto è successo ieri a Palermo, a margine della ricorrenza dell’omicidio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Sono trascorsi, infatti, ormai trentuno anni da quel 6 gennaio del 1980, quando Mattarella fu ucciso in pieno centro a Palermo, sotto gli occhi dei suoi familiari da un killer solitario, spietato e determinato nell’esecuzione.
Mattarella, Ciancimino depistò
A distanza di tanto tempo, ancora oggi, non mancano i dubbi sull’esito della vicenda processuale che pur ha visto, dopo i tre gradi di giudizio, la condanna di Riina e gli altri boss della cupola palermitana di allora, perché ritenuti mandanti dell’omicidio di un uomo politico, ritenuto poco malleabile e per nulla permeabile alle richieste mafiose. Nell’immediatezza del delitto, non mancarono strane rivendicazioni da parte di diverse sigle del terrorismo nostrano: dai “Nuclei Fascisti Rivoluzionari” a “Prima Linea”, passando per le stesse “Brigate Rosse”. Per tempo si perseguì la strada della matrice terroristica, probabilmente sulla scorta di informative depistanti, tanto che nel 1989 Giovanni Falcone emise un mandato di cattura per i terroristi neri Gilberto Cavallini e Giusva Fioravanti, quest’ultimo ritenuto il possibile killer di Mattarella, per la somiglianza straordinaria con l’identikit realizzato nell’immediatezza del delitto. In seguito i due verranno prosciolti da ogni addebito nei loro confronti.
Nella stessa direzione vanno ricordate anche le dichiarazioni rese allora da un personaggio come l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, che individuava nel terrorismo la mano armata che aveva colpito Mattarella. E proprio di Ciancimino ha parlato ieri il procuratore nazionale antimafia, ricordandone l’attività di depistaggio nei riguardi di investigatori e magistrati, allontanandoli dalla verità che lo stesso Grasso, pur avendo intuito, non riuscì a dimostrare fino in fondo: «Io che ho iniziato a indagare su questo omicidio 31 anni fa, come giovane sostituto procuratore a Palermo ho avuto subito l’intuizione, che però non si è mai potuta dimostrare, che quello di cui è stato vittima Mattarella è stato un delitto politico-mafioso, non solo mafioso e non solo politico. E questo l’abbiamo sempre detto, le indagini lo hanno fatto intuire».
Un omicidio voluto dalla mafia e da esponenti della politica, collusi con l’organizzazione criminale, per arginare l’opera di cambiamento voluta fortemente dal presidente della Regione, un democristiano anomalo che, forse anche per fugare le ombre sulle relazioni pericolose con i boss del padre Bernardo, potente esponente della Democrazia Cristiana, si buttò a capofitto nell’opera di moralizzazione del partito in Sicilia e di pulizia all’interno della macchina burocratica regionale. In quegli ultimi mesi di vita, Mattarella dovette affrontare una pesante crisi nella compagine che sosteneva la sua giunta, culminata nell’uscita del PSI dalla maggioranza e nella destituzione dell’assessore del PRI Rosario Cardillo, esponente di quella che oggi definiremmo “cricca” votata al controllo illecito degli appalti. E sempre sulla trasparenza Mattarella spinse l’acceleratore in quelle settimane, ordinando un’ispezione regionale al Comune di Palermo, per fare chiarezza sull’aggiudicazione di sei appalti per la costruzione di altrettante scuole a ditte riconducibili al costruttore Rosario Spatola, poi rivelatosi organico a Cosa Nostra.
Per Grasso quindi non ci sono dubbi, anche proprio in ragione dei depistaggi: «è questo il contesto in cui va indagato questo omicidio che ha fermato un cambiamento e uno sviluppo. Ci dobbiamo chiedere in trentuno anni cosa è stato fatto per avviare quel cambiamento e quello sviluppo». E a conferma della complessità del movente, Grasso ricorda che nemmeno dai collaboratori di giustizia è mai venuto un chiarimento sulla matrice dell’uccisione di Mattarella: «Nemmeno all’interno di Cosa nostra si riescono ad avere notizie su questi fatti eccezionali per un’organizzazione criminale che spesso è stata braccio armato di altri poteri».
Addaura, indagini deviate
Ancora di indagini depistate Grasso ha parlato ieri, facendo esplicito riferimento al tentativo di attentato subito da Giovanni Falcone sulle scogliere dell’Addaura nel 1989: «Ci sono stati elementi che non hanno favorito uno sviluppo normale delle indagini sul fallito attentato nel 1989 a Falcone. Uomini dello Stato hanno frenato il raggiungimento della verità».
Grasso ha quindi rivendicato il ruolo giocato nella ricostruzione dei fatti allora accaduti: «Mi assumo il merito di avere iniziato uno stravolgimento della ricostruzione della dinamica iniziale attraverso il collaboratore Fontana. Da quel momento è iniziata una ricostruzione diversa, individuando elementi che non hanno favorito uno sviluppo normale delle indagini. Ci sono stati processi a Caltanissetta nei confronti di artificieri e di altre persone che certamente non hanno contribuito all’accertamento della verità».
Il riferimento diretto di Grasso è alla notizia di qualche giorno fa, quando la Polizia scientifica di Roma ha attribuito la paternità delle tracce del Dna trovato su una maglietta rinvenuta all’Addaura ad Angelo Galatolo, boss mafioso del quartiere palermitano dell’Acquasanta, attualmente in carcere in esecuzione di condanna definitiva per associazione mafiosa e altri reati.
Sono venuti così a cadere definitivamente i sospetti sull’agente di polizia Antonino Agostino e sul collaboratore del Sisde Emanuele Piazza. I due furono indicati da Luigi Ilardo – confidente del colonnello dei Ros Michele Riccio e ucciso nel 1996, prima di formalizzare la sua collaborazione – e da Vito Lo Forte, collaboratore di giustizia, come gli esecutori materiali del fallito attentato contro Falcone e i giudici svizzeri Claudio Lehman e Carla Del Ponte, che si sarebbe dovuto concretizzare il 21 giugno del 1989.
Le “menti raffinatissime” – espressione utilizzata dallo stesso Falcone in riferimento alla matrice del fallito attentato – operarono, secondo Pietro Grasso, anche nell’orientare le indagini, tanto da far puntare i riflettori contro due come Agostino e Piazza che, al contrario, pagarono con la vita il loro probabile intervento per scongiurare l’attentato, anche se questo è da dimostrare processualmente ancora. Il padre dell’agente, Vincenzo Agostino, ricorda che al funerale del figlio e della nuora Ida Castelluccio, uccisi entrambi davanti ai suoi occhi il 5 agosto del 1989, Falcone partecipò commosso, dicendo di dovere la vita proprio a suo figlio. Diversa la sorte di Emanuele Piazza, sparito di casa il 30 marzo del 1990 e vittima della “lupara bianca”, l’arma preferita da sempre dai mafiosi, che facendo sparire il cadavere negano ogni possibilità di indagine.
Ora, grazie alle dichiarazioni rese dal collaboratore Angelo Fontana, che aveva denunciato la presenza di suo cugino Angelo Galatolo nel commando omicida, Grasso ricorda che è possibile arrivare alla verità su quanto avvenne nel giugno del 1989 sulle scogliere dell’Addaura, primo vero passo in quella strategia di morte che culminerà nelle stragi del 1992 e nelle bombe del 1993.
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