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Dell’Utri: il processo va in Cassazione

Di Lorenzo Frigerio il . L'analisi, Sicilia

Come previsto, il processo al senatore Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa è destinato a continuare, anche dopo la condanna a sette anni comminata a suo carico il 29 giugno dello scorso anno dalla Corte d’Appello di Palermo. Evidentemente l’esame delle motivazioni pubblicate il 19 novembre u.s. ha convinto ancora di più il Procuratore Generale di Palermo Nino Gatto che ha depositato nei giorni scorsi il ricorso presso la Corte di Cassazione. Una notizia passata quasi in sordina nel periodo delle feste natalizie ma destinata a produrre ulteriori scossoni nel mondo politico.

Con la richiesta alla Suprema Corte si chiede, in buona sostanza, che, a fronte del riconoscimento della sua colpevolezza, sia inasprita la pena per l’uomo politico, ristabilendo quanto deciso in precedenza: nove anni di carcere era stata la sanzione al termine del procedimento di primo grado. L’ulteriore obiettivo della Procura Generale con l’impugnazione della sentenza d’appello è il riconoscimento dell’apporto di Dell’Utri al sodalizio mafioso anche per quanto riguarda il periodo successivo al 1992, a differenza di quanto stabilito dal collegio composto dai giudici Dall’Acqua, La Commare e Barresi.

Fino a quell’anno Dell’Utri, stando a quanto si legge nelle motivazioni, avrebbe svolto la funzione del mediatore tra Cosa Nostra e l’imprenditore Silvio Berlusconi, ai tempi ancora lontano dalla ribalta politica, «così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo».
La lettura del corposo testo delle motivazioni – 641 pagine in totale – ci porta indietro di decenni, quando Cosa Nostra intravede in Berlusconi l’imprenditore lombardo in ascesa, da «agganciare» a tutti i costi, per le finalità di investimento e di riciclaggio delle cosche siciliane.

Lo scambio che Dell’Utri governa con la sua presenza e la sua attività è volto, da un lato, ad assicurare protezione a Berlusconi e famiglia e, dall’altro a garantire che arrivi a Bontate e agli altri boss la contropartita economica della tutela offerta. Dal pagamento di un pizzo vero e proprio, poi, nel corso degli anni, il rapporto tra Berlusconi e Dell’Utri sarebbe evoluto, al pari di quello tra il magnate dell’edilizia e delle prime tv commerciali e i capimafia palermitani. Dall’estorsione si sarebbe passati alla condivisione di investimenti e di proventi; l’enorme flusso di denaro proveniente dal narcotraffico e dal racket sarebbe stato investito nell’edilizia privata e nel business nascente delle televisioni.

Nelle motivazioni, non a caso, si parla di «rapporto parassitario» garantito da Dell’Utri ai danni di Berlusconi. In questa ricostruzione, Vittorio Mangano, soldato della famiglia mafiosa di Porta Nuova sarebbe stato chiamato ad Arcore non per fare lo stalliere, ma per sovrintendere direttamente alla tutela della famiglia dell’imprenditore milanese. Nasce da quegli anni la riconoscenza di Berlusconi nei confronti di Mangano che si è manifestata negli elogi pubblici che lui e Dell’Utri hanno fatto, tratteggiandone la figura di «eroe», capace di sopportare minacce e pressioni di magistratura e forze dell’ordine volte ad ottenere una confessione, in grado di metterli nei guai.

Elemento dirimente – vero motivo dell’impugnazione della sentenza d’appello per la Procura Generale di Palermo – è però la scelta dei giudici di secondo grado di ritenere chiusi i rapporti tra Dell’Utri e la mafia a partire dal 1992, l’anno terribile per le stragi di Capaci e via D’Amelio. Non sono state, cioè, ritenute probanti le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che, nella deposizione resa nell’aula bunker di Torino, aveva parlato di un «patto di scambio» tra Forza Italia e mafia, esito ultimo della trattativa avviata in quegli anni tra Stato e Cosa Nostra.

Gatto contesta la mancata validazione delle parole dell’ex killer di Brancaccio, al pari della mancata ammissione come fonte di prova della deposizione testimoniale di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, quel Don Vito, braccio armato in politica della fazione mafiosa dei “corleonesi”. Ciancimino, si legge sempre nelle motivazioni, viene definito «autore di altalenanti dichiarazioni», «portatore di presunte conoscenze, quasi sempre de relato».

Altrettanto scontata è l’impugnazione della sentenza di secondo grado effettuata contestualmente dal collegio difensivo di Marcello Dell’Utri. Non basta la riduzione da nove a sette anni di condanna e non basta neppure l’esclusione di qualsiasi rapporto tra Dell’Utri e i boss dopo il 1992. Il senatore punta, infatti, ad un completo ribaltamento del doppio verdetto che lo vede colpevole e i suoi legali non accettano assolutamente la ricostruzione dei fatti, che vengono contestati in radice.  

La battaglia legale continua con toni infuocati e si sposta in Cassazione, ma c’è da giurare che si giocherà anche fuori dall’aula della Suprema Corte.

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