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Quando una morte non basta…

Di Cynthia Rodrìguez il . Internazionale

“Ciudad Juárez ha una capacità
incredibile per reinventarsi nelle tragedie… l’incubo non finisce
mai…”, diceva Sandra Rodrìguez, giornalista del Diario di Juàrez
domenica notte quando hanno saputo un’altra notizia che continuava
ad alimentare il dolore nella famiglia di Marisela Escobedo, la donna
uccisa gioverdì scorso.

Dopo la morte di Marisela Escobedo
sembrava che il dolore, l’indignazione, la paura, fossero arrivati
alla massima espressione a Ciudad Juàrez, ma purtroppo non è stato
così.La notizia della madre uccisa di fronte al Palazzo di Giustizia
di Chihuahua, che da due anni chiedeva verità per sua figlia anche
lei uccisa, ha fatto il giro del mondo. Nonostante questo, sabato
scorso il Messico si è svegliato con un’altra tragedia nella
stessa famiglia: il cognato di Marisela Escobedo è stato rapinato da
un commando. Ieri notte, l’hanno trovato morto, con segnali di
tortura. Quasi irriconoscibile.Anche i funerali di Marisela, che
dovevano esserci la domenica, sono stati anticipati, perché
lafamiglia è stata minacciata. La nuova vittima era il fratello del
compagno di Marisela, Josè Monge Amparàn. Si chiamava Manuel Monge
Amparàn ed aveva 36 anni. Sabato scorso era nel negozio di Josè, un
posto dove si vendeva legna. Si vendeva, perché i criminali hanno
bruciato tutto.

Su questo caso la Procura di Chihuahua,
lo stato dove si trova Ciudad Juàrez, ha detto: “Josè Monje
Amparàn aveva avuto una relazione con la signora Escobedo, ma non
era un rapporto attuale, ma una cosa del passato. Non ha niente a che
vedere, non c’è nessun legame fra questa morte e quella di la
signora Escobedo”. Il caso di Marisela Escobedo rimarrà come un
altro caso dove la giustizia non arriva. Se è vero che Marisela è
stata uccisa con un colpo di pistola giovedì scorso, è vero anche
che da due anni lei era “ferita” perché l’impunità, la
corruzione e gli sbagli del sistema giudiziario, le hanno tolto parte
della sua vita, quando hanno negato giustizia dopo la morte di sua
figlia di 16 anni, Rubì Marisol.

Era il 29 di agosto del 2008 quando
Marisela vide per l’ultima volta sua figlia. Da quel momento ha
dedicato la sua vita per cercarla. Non c’era posto nè via a Ciudad
Juàrez che Marisela non conoscesse dopo che Rubì Marisol non era
tornata a casa. Alcuni giorni dopo, lei, Marisela ha saputo che sua
figlia era morta, che qualcuno l’aveva ucciso e che il corpo era
stato buttato insieme all’immondizia dove lasciano i rifiuti. Ha
saputo che Sergio Rafael Barraza Bocanegra, che era compagno di Rubì,
era il responsabile di questo crimine e che sua nipote, figlia di
loro due, era con la madre dell’assassino. Evangelina Hernàndez, una
giornalista che ha seguito il caso da quando Marisela ha cominciato
questo la sua via crucis, racconta come Marisela, nonostante il suo
dolore, continuava a lottare e che fu lei che continuò la ricerca
della figlia.

“Dal giorno che fu a denunciare la
sparita di mia figlia, solo mi rimproverano, mi hanno detto che il
numero di denuncia era il 0709 e mi hanno dato delle foglie con i
dati di Rubì perché potesse distribuirle”. Marisela, racconta la
giornalista Evangelina Hernàndez, sempre parlava ad alta voce, con
fermezza, non voleva piangere la morte di sua figlia fino che Sergio
Rafael fosse in carcere, ma qualche volta la realtà era molto più
forte di lei.

“Trovare due o tre piccoli ossa
bruciati di mia figlia è qualcosa di molto doloroso. Mi fa male
pensare che il corpo è stato mangiato dai cani… La mancanza di
sensibilità delle autorità per fare giustizia, però, mi fa ancora
più male, ed è quello che non mi lascia dormire nè mangiare. Non
sarò calma fino a che quest’uomo paghera per ciò che ci ha fatto,
a tutti noi”.

Marisela, pur non avendo soldi, fece di
tutto per offrire ricompense a chi dicesse qualcosa di sua figlia.
“Abbiamo trovato un testimone e lo abbiamo presentato al pubblico
ministero. Questo testimone era insieme a altri quattro amici con
Sergio Rafael quando lui ha confessò la morte di Rubì. Lui ha
riconosciuto che non sapendo cosa fare con il corpo di Rubì, l’aveva
bruciato e poi buttato lì, nell’immondizia”. Soltanto con la
presentazione del testimone, la procura cominciò a cercare il
presunto responsabile e dieci mesi dopo, Sergio Rafael fu trovato in
Zacatecas, un altro stato del Messico. Di fronte alla polizia che
hanno fatto l’arresto, lui ha ammesso di aver ammazzato a Rubì,
confessando il posto dove l’aveva buttata.

Nel palazzo della procura e nel
tribunale, racconta la giornalista Evangelina Hernàndez, dicono che
questo caso fu segnato dal momento che gli hanno dato il numero della
bestia come identificativo di causa penale, il 666. Il 26 aprile del
2010, Sergio Rafael si è presentato nel tribunale per essere
giudicato con la modalità di giudizio orale. La conclusione dei
giudici fu che non si dimostrava il causale della morte perché la
sua confessione non poteva essere usata come prova. La sentenza fu
assolutoria e Sergio Rafael fu liberato. Quel giorno Marisela ha
pianto, ha gridato, ha chiesto di fronte ai giudici un’altra volta
giustizia. Loro rimasero senza fare nulla.

Evangelina ricorda la ultima volta che
ha parlato con Marisela: “Soltanto morta lascerò di chiedere
giustizia per mia figlia, perché così ho promesso a lei ed a Heidi,
la mia nipotina”.

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