Emergenza etica e crisi della Giustizia
In questi ultimi anni noi magistrati ci siamo preoccupati spesso delle invettive che ci hanno rivolto esponenti del mondo politico. Ci siamo preoccupati meno degli effetti di quelle invettive. In particolare del modo in cui il cittadino oggi percepisce la giustizia. Salvo poi renderci conto dell’acuirsi della crisi nel rapporto tra giustizia e società. Naturalmente la “crisi” dipende da tanti fattori, non tutti riconducibili alle “ostilità” della politica. Alcuni sono di natura legislativa. Altri di allocazione delle risorse da parte del governo. Ma una parte, non insignificante, di responsabilità va ascritta proprio alle nostre condotte di magistrati, nell’ambito della giurisdizione e al di fuori di essa.
Le recenti indagini sul malaffare in Italia (a Roma, Firenze, Milano), ci pongono di fronte ad un dato molto preoccupante. Segnalano una “emergenza etica”. Nella crisi profonda del nostro sistema istituzionale, certi magistrati sembrano sedotti da indebite frequentazioni o dalle lusinghe del “potente di turno”, sia esso politico, imprenditore, libero professionista. Quelle indagini ci parlano di frequentazioni strumentali all’ottenimento di incarichi extragiudiziari, di vantaggi di ogni tipo anche per i propri parenti e, addirittura, vantaggi per la carriera giudiziaria. Insomma, saremmo di fronte a magistrati che abdicano alla propria fondamentale funzione di garanzia e di controllo della legalità, violando con ciò un dovere fondamentale della nostra professione. Il dovere di essere per primi “soggetti soltanto alla legge”. Gli episodi che stanno affiorando sono qualcosa di più di un campanello d’allarme. Descrivono un fenomeno diffuso. Al di là della eventuale rilevanza anche penale di alcune condotte, certi giri di “avvicinamento” o certe “disponibilità” ad assecondare intrecci tra interessi privati e funzione giudiziaria, minano la credibilità della magistratura e contribuiscono a generare una sfiducia diffusa nelle istituzioni. Il che amplifica l’illegalità, alimentando circuiti di giustizia alternativa, in molti casi gestita dalle tante mafie del nostro paese. Che fare? Questo congresso dimostra la consapevolezza dei pericoli che corriamo sul piano della questione morale. Lo dimostrano le proposte di modifica del codice etico dei magistrati, tendenti a creare gli “anticorpi” rispetto alle derive comportamentali. Ben vengano, ad esempio, nel silenzio del legislatore, le novità che “fissano i paletti” sul rapporto tra magistratura e politica, in quanto tese ad evitare che la giurisdizione si trasformi in un “trampolino di lancio” per la carriera politica. Ma, vorrei dire, anche come ANM siamo chiamati ad “osare di più” nel modo di prevenire e reprimere condotte opache. Si deve “osare di più”, naturalmente con equilibrio e nel rispetto delle garanzie, ma con rigore.
Esistono, infatti, spazi di responsabilità istituzionale che vanno oltre il perimetro tracciato dalle procedure disciplinari o penali. In questo senso, la delicata vicenda che ha recentemente coinvolto la massima carica del distretto di Milano va guardata con grande attenzione. La sezione dell’ANM del capoluogo lombardo ha mostrato coraggio nell’affrontare in una assemblea le implicazioni per la magistratura della indagine denominata “P3”. E le conseguenze di quella assemblea sono sotto gli occhi di tutti. Ma, vicende di questo tipo dovrebbero indurci a riflettere anche sul modo di concepire l’autogoverno. E’ auspicabile, in questo senso, che il rigore recentemente manifestatosi ad esempio sui ritardi nel deposito dei provvedimenti sia profuso anche sul piano del controllo rispetto alla opacità di certi rapporti con soggetti esterni alla magistratura e a frequentazioni discutibili. E ciò significa fare con coraggio una ricognizione severa sulle situazioni sospette, sulla base degli strumenti normativi a disposizione.
Tuttavia, sarebbe meramente consolatorio sposare una logica che identifica la questione morale solo con qualcosa che attiene alle frequentazioni con gli ambienti esterni (con il potente di turno). Una parte non insignificante della questione si gioca sul piano della professionalità dei magistrati, sul modo di concepire l’autogoverno e sulla cultura dei singoli, che naturalmente risente dello spirito dei tempi. Se ci guardiamo dentro, allora questione morale è anche altro rispetto ai rapporti con l’ “esterno”. E riguarda proprio il nostro stile professionale di tutti i giorni. Qualche esempio per capirci. Mi chiedo, sul piano della giustizia come garanzia, se non attenga anche alla violazione dei nostri doveri morali, fare un provvedimento di custodia cautelare ricopiando pedissequamente una richiesta del pubblico ministero, dimostrando di non avere letto neppure una carta. Esistono forme di controllo effettivo al nostro interno su questo? Ed ancora. Mi chiedo, sul piano della giustizia come servizio, quanto pesi la “cultura dell’immagine”, la “smania della visibilità”. Non riguarda, forse, la questione morale la condotta di colui che cede alle lusinghe del mondo della informazione, ad esempio coltivando un fascicolo “probatoriamente vuoto”, ma mediaticamente redditizio, a discapito di altri fascicoli per vicende destinate a restare nell’anonimato per la stampa ma “pieni” di elementi di prova e magari rilevanti per la tutela di consumatori, risparmiatori, lavoratori? E non è forse riconducibile alla questione morale anche l’eccedere nelle motivazioni dei provvedimenti per inseguire la notorietà, nel contempo bruciando piste investigative possibili e utili? Ed allora, non sarebbe giunto il momento, nelle decisioni dell’autogoverno, di non confondere la professionalità con la notorietà? In conclusione, noi dobbiamo soprattutto recuperare la fiducia nei cittadini. Io credo sia questo il senso profondo delle modifiche al codice deontologico che la magistratura associata propone. Tante sono le condotte da mettere a punto. Ma tutto questo passa anche per l’elaborazione di una moderna e condivisa deontologia giudiziaria.
D’altra parte occorre tenere presente che la trasparenza del comportamento, l’attenzione agli interessi e ai punti di vista dei cittadini e degli operatori del diritto, la disponibilità verso gli utenti del servizio-giustizia possono essere compromessi anche attraverso condotte, atteggiamenti, stili, modi di fare che non oltrepassano la soglia della illiceità disciplinare, e che tuttavia non sono tollerabili in una società democratica che affida alla giurisdizione e ai giudici la tutela di beni primari per gli individui e la collettività.
* GIP Tribunale Palermo
Intervento tenuto al XXX congresso ANM, Roma 26/28 novembre 2010
Trackback dal tuo sito.