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Che fine ha fatto il disegno di legge
sulla «lotta alla corruzione»?

Di VIttorio Grevi* il . Interviste e persone, Lombardia

Mentre le inchieste sui rapporti oscuri tra politica e affari dilagano, creando allarme ed indignazione — come ha sottolineato anche il presidente Napolitano — un interrogativo si impone: che ne è del disegno di legge del governo contro la corruzione, preannunciato nei mesi scorsi con grande enfasi, quasi si trattasse di una svolta urgente nella politica legislativa sulla «questione morale»?

Sebbene ispirato all’apprezzabile proposito di prevenire e reprimere la corruzione, quale fonte di illegalità nella pubblica amministrazione, oltreché quale causa di «enorme danno alla credibilità del Paese» (perché essa «disincentiva gli investimenti, anche stranieri, frenando di conseguenza lo sviluppo economico»), il disegno di legge governativo non solo risulta praticamente fermo all’esame del Senato, ma soprattutto non sembra idoneo a realizzare una efficace strategia anti-corruzione. È vero che vi sono previste nuove misure dirette ad assicurare maggiore trasparenza nell’attività amministrativa e maggiori controlli circa l’operato degli enti locali, sulla base di meccanismi che, per quanto perfettibili, potrebbero fornire un utile contributo in chiave di prevenzione di condotte corruttive.

Tuttavia, il testo presentato dal ministro Alfano appare per molti aspetti carente, a cominciare dal fronte dell’accertamento e della repressione di tali condotte, in sede penale, non potendo ovviamente bastare, al riguardo, i modesti ritocchi proposti rispetto ai livelli delle pene fissate per i più tipici delitti del malaffare politico-amministrativo.  Allo scopo sarebbe stato lecito aspettarsi, in primo luogo, un deciso impulso verso la ratifica della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione (Strasburgo, 1999), che l’Italia ha sottoscritto, ma non ha mai ratificato, con la conseguenza che il nostro sistema non è stato ancora adeguato alla nuova e più rigorosa disciplina dei delitti contro la pubblica amministrazione e contro l’industria ed il commercio prevista quali si concretizza il canale tradizionale per la creazione di quei «fondi neri» , che a loro volta spesso costituiscono il necessario punto di passaggio per le successive attività di corruzione. 

In fine, come è facile rendersi conto, serve a poco aumentare le pene o perfezionare la struttura delle varie figure di reato, se poi non si riesce a fare i processi, ad accertare le responsabilità, e quindi (come lamentava anche Galli della Loggia su queste colonne) nemmeno si riesce a giungere alla pronuncia di una sentenza definitiva di condanna. Ma qui, evidentemente, la partita si gioca sul piano processuale. Con riguardo al quale, non può non sottolinearsi, da un canto, la obiettiva schizofrenia di un’azione di governo che, mentre proclama la «lotta alla corruzione», per contro, attraverso il ben noto disegno di legge sulle intercettazioni, ha fatto proposte tali da indebolire gravemente uno dei più importanti strumenti investigativi utilizzabili allo scopo.

E, d’altro canto, l’ancora più vistosa contraddizione rappresentata dal sostanziale dimezzamento, realizzato nel 2005 a seguito della legge ex-Cirielli, dei termini di prescrizione per il delitto di corruzione, ridotti da 15 anni a 7 e mezzo. Con il risultato che molti dei relativi processi (ad esempio il recente processo per l’affare Mills) si estinguono paradossalmente poco prima della sentenza finale, sebbene preceduta da una o due sentenze di condanna non definitive.

* dal Corriere della Sera del 28 luglio 2010

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