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In catene davanti al Viminale

Di Norma Ferrara il . Lazio, Sicilia

Bivona, quasi quattromila anime in provincia di Agrigento. Lì nasce e si consuma la vicenda di Ignazio Cutrò, imprenditore siciliano che ieri insieme alla collega palermitana Valeria Grasso si è incatenato, in segno di protesta, davanti al Viminale per chiedere una maggior presenza dello Stato, un aiuto concreto per la situazione in cui versa, dopo aver denunciato i mafiosi che chiedevano il pizzo. «Lo Stato italiano mi ha prima usato per istruire un processo al gotha mafioso del bivonese e della bassa quisquina e poi mi ha abbandonato al mio destino. Ora basta, fino a quando non mi sarà restituito il mio lavoro, la mia sicurezza e la mia dignità di imprenditore che ha denunciato Cosa nostra, io rimarrò incatenato davanti al Ministero dell’Interno. Se la mafia non mi ha ancora ucciso allora mi lascerò morire di fronte all’indifferenza delle istituzioni» (leggi qui maggiori info. sulla vicenda dell’imprenditore Cutrò). Ieri un folto gruppo di persone si è radunato attorno ai due imprenditori coraggio e anche una delegazione parlamentare si è recata sul posto.

 «Finchè il Ministro dell’Interno non ci riceverà e non ci metterà per iscritto che risolverà i problemi, che prima di schierarci con lo Stato non avevamo, noi rimarremo qui, incatenati, per tutto il tempo che servirà». «Fino a oggi nessuna richiesta di ammissione a programma è stata formulata nei confronti né di Cutrò né di Grasso. Pertanto nulla può la Commissione sui programmi di protezione, in assenza di un’attivazione dell’autorità giudiziaria» – ribattono dall’ufficio del sottosegretario del Ministero dell’Interno, Alfredo Mantovano (leggi qui il comunicato del Ministero).  Da quando ha denunciato il racket Cutrò ha trovato sbarrate le porte del libero mercato, si è sentito isolato nel luogo in cui vive con la sua famiglia e opera con la sua impresa. Così a cosa serve avere macchinari nuovi, un sostegno formale se poi sul territorio quell’impresa non decolla più, per ritorsione e paura da parte del libero mercato che libero non è? 

«Vorrei solo continuare a fare il mio lavoro – ha dichiarato qualche giorno fa a Libera informazione l’imprenditore agrigentino – poter continuare a mantenere la mia famiglia. Ho denunciato il racket ma non posso per questo trovarmi in una situazione peggiore di quella precedente. Ho lanciato un appello per mettere in vendita i miei organi poichè non ho altro modo per far fronte a tutte le difficoltà economiche che si stanno presentando». Ieri – dopo il sit-in di protesta  e uno scambio di botta e risposta fra comunicati stampa del Ministero dell’Interno e i due imprenditori –  è avvenuto l’incontro con Mantovano. Il sottosegretario –  si legge in una nota presente sul portale on line di Ignazio Cutrò – «si è impegnato, in primis, a recuperare i soldi che i due imprenditori hanno in sospeso con la Prefettura». Cutrò e Grasso non chiedono denaro, in realtà, ma soltanto di poter ricominciare a lavorare e al sottosegretario hanno palesato le difficoltà in cui si trovano a vivere. Mantovano ha chiesto un promemoria delle difficoltà vissute dai due imprenditori “antiracket” per poter così intervenire. «io voglio soltanto riprendere a lavorare per vivere serenamente e non sentirmi bussare alla porta dalle banche – ha affermato Cutrò. Se in questi anni, da quando ho deciso di denunciare, non ho più lavorato, è soltanto per colpa della mafia». Una azienda da far ripartire in un territorio ostile in cui tutti ti fanno terra bruciata perchè hai scelto di stare dalla parte dello Stato ma anche  una situazione precaria che riguarda la sicurezza personale e della sua famiglia.  «Il servizio – ha detto Cutrò – non viene effettuato con mezzi idonei. Io, mia moglie e i miei figli non ci sentiamo sicuri. Io godo della protezione, anche se subdola, ma la mia famiglia no». 

Per maggiori informazioni e seguire gli sviluppi della vicenda di Ignazio Cutrò –  Ignaziocutrò.com

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