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Disastro di Bhopal

Di Anna Foti il . Internazionale

Bhopal, 2 dicembre di 26 anni fa: poco prima della mezzanotte, la città dello stato federato del Madhya Pradesh nell’India centrale, comincia a respirare 54 mila tonnellate di isocianato di metile (Mic), un agente chimico utilizzato nella produzione di pesticidi, e oltre 12 mila chili di reagenti chimici rilasciati dallo stabilimento della multinazionale chimica statunitense, Unione Carbide Corporation (UCC) – dal 2001 Dow Chemical Company. Il più grande incidente chimico – industriale della storia. Un disastro ambientale che espose mezzo milione di persone* a gas tossici i cui effetti devastanti su salute e ambiente scrissero la storia dei venti anni successivi*. In pochi giorni circa dieci mila persone morirono, centinaia di miglia furono avvelenate. Un destino irreversibile che nei venti anni successivi chiamò altre 15 mila persone alla morte*. Un impatto violento e dannoso che ancora persiste, insieme a ciò che resta del vecchio stabilimento ancora lì come lo spettro del disastro dentro il disastro. Quel 2 dicembre del 1984 causò vittime di morte ma anche di impoverimento progressivo dovuto alla malattia, all’incapacità di lavorare e di produrre reddito, quasi sempre unico in famiglia, alla perdita di bestiame sterminato e di terreni contaminati dai gas tossici.  Un accordo extragiudiziale tra la Union Carbide e il governo indiano, nel 1988, stabiliva l’ammontare del risarcimento in 470 milioni di dollari, senza nessuna bonifica o rimozione degli scarti, potenziale pericoloso di un lento e progressivo avvelenamento della città. Neanche il governo indiano tutelò i diritti dei suoi cittadini. Un modo frettoloso e inadeguato per chiudere la questione, al di là della legge, di una effettiva e corretta tutela delle vittime. A nulla valsero le loro contestazioni. L’accordo fu confermato dalla Corte Suprema Indiana ma il popolo di Bhopal ha atteso fino al giugno scorso quella giustizia che accertasse le responsabilità di chi viola i diritti umani, siano aziende o governi. Quella giustizia è arrivata ma, come spesso accade, ha il sapore amaro dell’incompiutezza e dell’incompletezza. Alcuni mesi fa, infatti, un tribunale distrettuale di Bhopal, in India, ha emesso una sentenza in base alla quale otto persone sono riconosciute colpevoli, per negligenza, della tragedia gli otto imputati rischiano una pena massima di due anni. Si tratta di dipendenti indiani della fabbrica, tra cui manca all’appello, perché latitante, lo statunitense Warren Anderson, ai tempi della tragedia di Bhopal presidente della Union Carbide Corporation. Era stato arrestato nel 1984 ma poi rilasciato dietro cauzione da un tribunale dello Stato del Madhya Pradesh Anderson. Oggi ha 81anni ed è considerato il responsabile principale del disastro. Lo stato di latitanza non ha consentito che fosse sottoposto a processo. Il 31 luglio del 2009 la magistratura indiana ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti che però la polizia ancora attende di eseguire.  Nel caso di Bhopal alle responsabilità rimaste impunite della Unione Carbide, si aggiunge anche quella del governo che ritarda la costituzione della Commissione Speciale di Inchiesta sui fatti del 1984, richiesta dai movimenti di società civile.  

L’azione specifica lanciata da Amnesty International, nell’ambito della sua campagna contro la Povertà  “Io pretendo Dignità”, ha chiesto al governo indiano di fornire un’adeguata riabilitazione medica, sociale ed economica alle persone sopravvissute, la bonifica delle aree contaminate; ha chiesto giustizia e trasparenza delle informazioni sul gas fuoriuscito, sul deposito abusivo dei rifiuti, sullo scorretto smaltimento degli stessi nel sito della fabbrica abbandonata dopo il disastro e sull’impatto complessivo sull’ambiente. A distanza di 26 anni l’azienda non è stata neanche chiamata a smaltire gli scarti, anch’essi tossici e dannosi, a bonificare l’area dov’era sito lo stabilimento. Di questo disastro certe sono solo le morti e gli avvelenamenti di ogni forma di vita. Nessuno ha mai adeguatamente risposto di fronte ad alcun giudice, nonostante lo sterminio di migliaia di vita umane.    Le vicende che sono succedute al fatto, hanno reso la vicenda molto più complessa. Prima la vendita delle quote di maggioranza della Union Carbide India Limited (Ucil) alla società indiana MacLeod Russel limited in Calcutta, poi il cambio di denominazione della Union Carbide (Ucil) in Every Industries India che avrebbe, nel 1998, restituito al governo indiano il terreno concesso inizialmente alla Ucil per la costruzione dello stabilimento Infine l’avvicendamento ai vertici della società, oggi la Dow Chemical detentrice del controllo totale della ex -Ucc, che declina ogni responsabilità nei confronti del disastro. Ma come è possibile che un disastro ambientale di questa portata rimanga impunito e senza responsabili? Come è possibile che il governo indiano sia riuscito a “tutelare” i propri cittadini unicamente con una inadeguata somma di denaro? Come è possibile che la Dow (subentrata alla Uniona Carbide nel 2001) non risponda alle richieste della vittime, della società civile, del Congresso Americano? Come è possibile che nessuna responsabilità sia stata ancora formalizzata alla stessa per la vendita dell’agent orange, erbicida contenente diossina utilizzato dai militari americani in Vietnam e di cui oggi portano il segno 500 mila bambini nati con deformità congenite? Come è possibile che la Dow si rifiuti di risarcire i lavoratori del Nicaragua, della Costa Rica, della Nuova Zelanda, dell’Ecaudor, del Panama e del Guatemala per la produzione e l’esportazione del pesticida DPCB e di rispondere dell’inquinamento dell’acqua potabile con cloruro di vinile, causa di tumore ai reni, al cervello, ai polmoni, all’apparato digestivo, a Plaquemine, nella Louisiana? Ebbene tale multinazionale, con sede nel Michigan, nonostante abbia inquinato dentro e fuori i confini americani, è ancora attiva! L’istituto americano di ricerca politica ed economica (Political Economy Research Institute) colloca la Dow Chemicals al terzo posto tra le aziende che inquinano l’aria negli Stati Uniti, mentre l’EPA, agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, dichiara che Dow Chemical è responsabile di 96 delle discariche tossiche degli Stati Uniti, occupando il decimo posto per numero dei siti della lista nera. Una fabbrica che potrebbe lasciare strascichi anche in Italia. Recente la vicenda dello stabilimento di Equipolymers, la più grande fabbrica chimica sopravvissuta all’abbandono dell’Eni e di proprietà della Dow Chemical, con sede ad Ottana, in provincia di Nuoro, e con riferimento alla quale la regione Sardegna ha chiesto accertamenti sulla qualità ambientale del sito.  Senza dimenticare che prima di cessare nel 1993 Unione Carbide Corporation ha prodotto sostanze chimiche (zeoliti cristallini e catalizzatori), anche nella provincia di Reggio Calabria, per poi commerciarli in Italia e all’estero. Lo stabilimento era sito nella stazione di San Leo di Pellaro, dove Legambiente denunciò la presenza di uno scarico abusivo sottomarino di acque non depurate, stilando un elenco dei 40 di maggiori dimensioni. In questo elenco figura anche quello di soda caustica e derivati in località San Gregorio, in corrispondenza del sito che ospitò per anni lo stabilimento della Union Carbide Corporation. 

Bhopal è la storia che conferma drammaticamente tutte le altre storie. Testimonia drammaticamente come le imprese e gli interessi economici, allo stesso modo di quelli energetici, ormai seguano direttrici lontane dagli standard internazionali sui diritti umani, non al servizio dell’uomo ma al servizio di logiche esclusive di profitto e di equilibri e accordi politici. Una linea oggi non smentita dallo stesso governo dell’India, paese con il maggior numero di emissioni di gas serra unitamente alla Cina,
agli Stati Uniti e all’Unione Europea, su cui si dovrà arretrare entro il 2020, come disposto al vertice di Copenaghen dove, per rallentare il galoppante surriscaldamento del pianeta, è stata ribadita la necessità di rispettare il Protocollo di Kyoto, sganciando la produzione di energia dalla combustione di materiale fossile. Una spirale di irresponsabilità, di impunità, di ingiustizia alimentata dalla complicità dei governi che compromettono diritti di primaria importanza e non informano i cittadini sui rischi reali delle loro scelte. Spesso tuttavia vi è anche indifferenza. Troppo tardi ci si indigna e si rivendicano diritti, equità e giustizia. 

* Fonte: Amnesty International 

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