Federalismo mafioso
Perché per l’opinione pubblica del nostro Paese è così difficile prendere atto della dura realtà e ammettere l’organicità strutturale del fenomeno mafioso nel sistema Italia, ormai operante in tutto il territorio nazionale e non soltanto in quelli di origine? Perché nelle regioni del Nord si preferisce sostenere ancora oggi, caparbiamente e contro ogni evidenza che, al massimo, ci troviamo di fronte ad infiltrazioni criminali e non invece a presenze stabili, come anche l’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia rileva?
La lettura delle 466 pagine del corposo report della Dia è un colpo da ko anche per chi è di stomaco forte. In esso si documenta il furto continuo di risorse e di vite che le mafie realizzano nel meridione d’Italia, ma, facendo riferimento ai dati e ai riscontri delle importanti inchieste della magistratura e delle forze dell’ordine, si certifica anche e soprattutto l’ascesa al Nord che, un tempo forse resistibile, si è ormai fatta, con il passare dei decenni, inarrestabile.
Così, con un colpo di spugna, è fatta piazza pulita delle dichiarazioni rituali di quanti, oscillando dalla teoria del complotto all’ipotesi negazionista, continuano a vedere il fenomeno mafioso come frutto dell’arretratezza economica, figlio di un Sud del Paese che non ormai c’è più e rimandano invece di prendere coscienza della realtà. Le mafie hanno esteso il loro raggio d’azione in tutto il Paese, arrivando da almeno quattro decenni nelle regioni dove si costruisce l’eccellenza d’impresa, dove investimenti e mercati sono porte aperte sul mondo, dove si manovrano le finanze e i capitali senza troppa attenzione alla loro provenienza, dove si produce la maggior parte del Pil nazionale. E allora forse saranno esasperati i toni di Vendola quando parla di Lombardia come della
«regione più mafiosa», ma senza dubbio è fuori ogni logica la reazione di Formigoni: «Non siamo la regione più mafiosa d’Italia, ma quella più attaccata dalla mafia, dalla camorra e dalla ‘ndrangheta, che sono nate altrove e sono venute qui per insidiare la vita e il lavoro dei nostri cittadini».
Si rassegni il governatore lombardo, le mafie possono contare sul contributo di tanti padani, che preferiscono la via del crimine a quella della legalità. Gli ingenti proventi derivanti dal business dei sequestri di persona (la Lombardia è stata la prima regione per numero di sequestri, con 159 casi su 672 ma tutto il nord è stato colpito dalla piaga) e dal traffico internazionale di stupefacenti hanno fatto da volano alla crescita imponente delle cosche. Contemporaneamente la grande massa di denaro liquido aveva la necessità di trovare prontamente un impiego e qui sono entrate in gioco altre competenze. Infatti, l’attivazione del vorticoso meccanismo di riciclaggio e di ripulitura dei capitali sporchi non è stato realizzato da un manipolo agguerrito di criminali in trasferta, portatori di una cultura dell’illegalità che ha ammorbato territori sani e immuni fino allora.
No, al contrario, il lento contagio delle mafie si è avvalso del contributo fattivo di tanti lombardi, piemontesi, veneti, liguri, toscani, emiliani che hanno visto nel denaro e nel potere delle cosche il mezzo per arrivare prima, per sedere nei luoghi del comando, fossero questi gli scranni di un consiglio comunale o regionale o le poltrone di una banca o di un consiglio d’amministrazione. Un nome per tutti, Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano che rimase schiacciato nella morsa di Cosa Nostra e finì “suicidato” sotto il Black Friars Bridge a Londra. Chi oggi ha occupato il posto di Roberto Calvi sulla piazza milanese? Se possono esserci dubbi, basti pensare alle operazioni recenti che hanno reso evidente l’ingresso di capitali sporchi nell’azionariato di aziende quotate a Piazza Affari. Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso e ne vedremo delle belle nei prossimi mesi.
Per cercare di rispondere alle domande poste all’inizio, si continua a preferire la favola del lupo cattivo (le mafie, con le loro diverse denominazioni) e di Cappuccetto Rosso (il Nord prospero e onesto), perché, in caso contrario, si dovrebbe ammettere la propria personale responsabilità in questa quotidiana opera di rimozione del problema. Il mondo dell’associazionismo antimafia in questa nuova fase non deve chiamarsi fuori. Un conto è sostenere le cooperative del Sud che lavorano sui terreni confiscati alle mafie, organizzando cene della legalità e vendendo i prodotti realizzati in Sicilia, Campania, Calabria, Puglia. Un conto è invece, analizzare il proprio territorio, scoprire i focolai di infezione, denunciare e informare su quello che le mafie stanno facendo a Milano, Pavia, Varese, Torino, Genova, Bologna, Parma, Modena, solo per citare le ultime grane del rosario mafioso. Detto questo non vogliamo certo dire che le cooperative di Libera Terra e le altre esperienze di lavoro e legalità grazie all’utilizzo sociale dei beni sottratti alle cosche non debbano essere più sostenute, anzi al contrario vanno incentivate e supportate allo stremo.
Diciamo in più che è tempo che al Nord, il fronte antimafia si configuri come vera e propria trincea dell’oggi e del domani nel contrasto alle mafie e si organizzi per reggere la sfida prima di essere spazzata via dai fatti. È tempo cioè che nelle attività impostate sul binomio memoria – impegno, gli sforzi maggiori si concentrino sul secondo termine, sapendo che il miglior modo di ricordare le vittime delle mafie e aiutare chi lavora sui terreni confiscati al sud è combattere le mafie al nord, attrezzandosi in termini di analisi e di risposte. Ormai la linea della palma ci ha superato, è tempo di prenderne atto.
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