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Riaprire gli armadi non basta

Di Norma Ferrara il . Istituzioni, Progetti e iniziative

Otto morti e cento feriti. Erano le 10:12 del 28 maggio 1974 quando in Piazza della Loggia a Brescia, nel cuore di una manifestazione antifascista indetta dai sindacati, una bomba provocò una strage. 36 anni di indagini, tre inchieste, l’ultimo processo giunto in Corte d’Assise, lo scorso 16 novembre, ha portato all’assoluzione dei cinque imputati: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti, perché non sono stati ritenuti sufficienti gli elementi a loro carico. Dopo 167 udienze si attendono le motivazioni della sentenza per ricorrere in appello. Manilo Milani – Associazione familiari vittime della strage di Brescia – nel giorno della sentenza ha dichiarato: «Non c’é la volontà di affrontare quegli anni, e non affrontare il nodo di quegli anni vuol dire non capire i rischi, non capire la mancata trasparenza che ha questa democrazia al proprio interno . C’é una legge sul segreto di stato ma non i regolamenti che la applicano. Io credo però che il vero segreto di stato sia rappresentato da coloro che sanno e che non hanno voluto parlare in questo processo».

E anche sulla scia di questa sentenza che ha molto colpito l’opinione pubblica è stato lanciato un appello per chiedere  di «riaprire gli archivi di Stato e avere la verità sulle stragi». All’interno dell’appello (leggi qui l’appello) fra le altre cose i promotori e primi firmatari chiedono che «sia data piena attuazione alla legge n.124 del 2007 che regola il segreto di Stato la quale prescrive che, passati al massimo trent’anni dalla data in cui è stato apposto il segreto sull’evento e sui relativi documenti o dalla data in cui sia stato opposto al magistrato che indagava, tutti i documenti che si riferiscono all’evento siano resi pubblici e consultabili». Una richiesta legittima sottoscritta in pochissime ore da quasi ventimila persone segno che gli italiani hanno voglia di sapere mentre il mondo della politica va in contro a tentennamenti.

Conservazione e accessibilità delle fonti per una storia ancora da scrivere

Quella delle “ragioni di Stato” non  è l’unica delle problematiche che caratterizzano la complessa area di lavoro collegata alla ricerca storica, alla documentazione, all’accesso ai documenti, archivi di Stato e pubblicità degli atti. La studiosa e responsabile dell’archivio Flamigni, Ilaria Moroni, oggi l’animatrice del percorso nazionale “Rete degli archivi per non dimenticare” sottolinea che «chiedere di togliere il segreto di Stato e riaprire gli archivi è di fondamentale importanza, soprattutto in merito agli archivi ancora inaccessibili, quelli del nostro corpo militare e di alcuni documenti correlati alle Commissioni parlamentari d’inchiesta. Ma questo del segreto imposto sui documenti non è l’unico ostacolo alla ricostruzione storica delle vicende di terrorismo, stragi, strategia della tensione, mafia e tanto altro». La legge del 2007 ha imposto un limite di 15 anni rinnovabili in altri 15 al segreto di stato sui documenti ma spesso questi rimangono secretati oltre i trent’anni. La Moroni ci spiega anche il perché.  «E’ importante distinguere – dichiara  – fra gli archivi correnti e quelli storici. I trent’anni scattano soltanto quando un documento giunge agli ultimi. Poniamo il caso che un documento venga sottoposto a continui aggiornamenti e rimanga fra gli archivi correnti, su quel documento il segreto di stato verrà apposto solo quando sarà trasferito all’archivio storico».

La 124/2007 è lettera morta

Dunque, conti alla mano, il documento può rimanere sconosciuto all’opinione pubblica, ai ricercatori, ai giornalisti, più del tempo stabilito dalla normativa vigente. Di  recente una proposta avanzata dalla commissione Granata nel Copasir, chiedeva di reiterare il segreto di Stato dopo trent’anni. La 124 del 2007 – come sottolineano i promotori dell’appello – è soprattutto rimasta orfana del suo regolamento attuativo.  «E’ come se la legge in merito non esistesse – commenta la Moroni».  Anche a causa di questo vuoto normativo, la situazione in cui versano gli archivi è ben lontana dal trovare una soluzione: «molto spesso – continua la responsabile dell’archivio Flamigni – le difficoltà che si incontrano nel tentare una ricostruzione storica dei fatti non è legata all’apposizione del segreto di stato sui documenti, piuttosto alla loro conservazione. Manca nel nostro Paese una cultura della conservazione del singolo documento, lo si evince dalle condizioni in cui versano l’archivio di Stato, i singoli archivi delle forze armate, gli archivi dei Tribunali, fatta eccezione per alcuni casi che invece hanno messo in campo un notevole sforzo per la digitalizzazione, il resto versa ancora in  condizioni precarie».  Il risultato di queste carenze? Continuiamo a raccontare una storia con tanti omissis, con il condizionale dove potremmo invece farne a meno, «continuiamo – aggiunge la Moroni  – a non poter far sapere all’opinione pubblica quello che adesso è stato accertato sul Piano Solo, ovvero che il tentato colpo di Stato fu elaborato d’intesa o su ordine dell’allora Capo dello Stato, Antonio Segni (leggi qui per maggiori info)». In attesa di sapere le motivazioni della sentenza di Brescia chiediamo alla dottoressa Moroni a che punto si trova la ricostruzione storica dei fatti relativi a questa strage, ad oggi, ancora impunita. «La mia opinione  – dichiara la Moroni –  è che sarà la storia a riscrivere come andarono i fatti quel giorno a Brescia. La produzione di documenti in questi 36 anni è stata enorme, la maggior parte è  custodita nella Casa della Memoria. Tutto questo non è bastato per la giustizia, ma non è tutto da rifare, non ci sono innocenti ma prove non sufficienti per una condanna. Rimane un duro colpo per tutti per i familiari, innanzitutto, e per la storia».

Sulla documentazione inerente la strage di Brescia non è stato apposto il sigillo del segreto di Stato. Durante il processo sono state rese dichiarazioni importanti, fondamentali, ma non sufficienti. «Quella sentenza di condanna – dichiara la Moroni  – non avrebbe posto solo di fronte all’ individuazione di colpevoli ma portato all’attribuzione di responsabilità ad un intero periodo che, eccezion fatta  per la strage di Bologna, rimane ancora oscuro». E’ la strategia della tensione, di questo si tratta. «C’è ancora una difficoltà della politica e degli organi competenti a fare chiarezza su questo periodo della nostra storia – commenta».

Il Copasir risponde …

«L’appello – sottofirmato da tantissimi in poche ore – è indirizzato, oltreché al Quirinale, al Copasir, ed è proprio da li che speriamo arrivino risposte immediate e soluzioni concrete». Già lo scorso anno la “Rete degli archivi” si era fatta promotrice di un appello simile “Aprire gli armadi non basta”, nel quale si evidenziavano tutte le difficoltà inerenti archiviazione e accessibilità dei documenti e anche allora tutto si fermò senza avere risposte. Questa volta il Copasir ha risposto ai promotori dell’appello attraverso un messaggio del suo presidente, Massimo D’Alema, affermando che «il Comitato ha deliberato di svolgere uno specifico approfondimento, attraverso audizioni di soggetti interessati e di esperti del settore, sulla disciplina degli archivi, non solo quelli dei Servizi, con l’obiettivo di
favorire una omogeneizzazione delle norme in vigore, avendo come punto di riferimento la disciplina della legge n. 124. […] L’apertura degli archivi  – ha aggiunto  «è nell’interesse degli stessi Servizi, perché contribuirebbe a valorizzare le attività svolte dagli Organismi a tutela della sicurezza nazionale, contro le minacce interne ed esterne del terrorismo, a tutela degli interessi economici e strategici dell’Italia. Si sgombrerebbe così il campo dai sospetti, consentendo alla magistratura di accertare, ove possibile, le effettive responsabilità di eventuali deviazioni e a giornalisti e storici di far luce su importanti episodi della nostra storia».

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