Padre Ezechiele Ramin, dall’Irpinia all’Amazzonia
Da Padova a San Mango sul Calore alla foresta amazzonica. Sempre missionario della sofferenza, tra i terremotati e poi tra gli indios e i posseiros, i lavoratori agricoli brasiliani. É la vicenda, bella e drammatica, di padre Ezechiele Ramin, comboniano padovano. Per otto mesi “parroco-volontario” nel paesino dell’alta Irpinia, tra i più colpiti dalla scossa del 23 novembre 1980. Poi missionario a Cacoal, nello stato di Rondonia, in Amazzonia, dove verrà ucciso 25 anni fa, il 24 luglio 1985, da killer inviati dai fazendeiros, i grandi latifondisti. Aveva appena 32 anni. “Intendo camminare con voi, lottare insieme a voi – aveva detto nella sua prima omelia agli indios -. So bene che questa mia scelta mi può costare la vita, tuttavia ne accetto tutte le conseguenze, fosse pure la prigione, la tortura o anche lo spargimento del sangue”. Io l’ho incontrato due volte. La prima la notte di Natale del 1980. Ero volontario col mio gruppo scout, la Caritas diocesana di Roma e la parrocchia di San Giuda Taddeo.
Ero in Irpinia da quasi un mese. In giro tra paesini, borgate e case isolate, ad aiutare i più dimenticati dai soccorsi. Scelsi di partecipare alle messa di mezzanotte proprio a San Mango, paese della distruzione e dei morti. Un lunghissimo elenco che proprio padre Lele lesse durante la celebrazione, ma aggiungendo parole di speranza. Un’esperienza che non ho mai dimenticato. Dieci anni fa raccontai l’episodio nelle mia testimonianza su Avvenire in occasione del ventennale del terremoto. E fu l’occasione del secondo incontro col missionario. Mi scrisse una ragazza, una scout amica del comboniano (padre Lele era scout), padovana anche lei e volontaria a San Mango. Mi raccontò della missione in Brasile e poi della drammatica morte. E mi inviò un libro con le sue lettere.
Ecco il nuovo incontro con padre Lele, la scoperta di una fede forte, di una vita tutta donata agli altri. “Portare il Cristo è portare la gioia – scriveva all’amica Paola -. Io seguo la strada del missionario non per mia iniziativa, ma perché Dio mi cerca e continuamente mi chiede se lo voglio seguire”. Per padre Lele questo aveva un indirizzo chiaro. “Mi sento amato da Lui e sto sereno – scrisse poco prima di partire per il Brasile -. Nella Chiesa ci sono tante membra; chiedo a Risorto di essere il cuore (è troppo?) per dare speranza e bene”. Con questo spirito partì per San Mango col confratello padre Nando Caprini. Per un po’ dormirono in tenda, poi dopo le prime nevicate trovarono una sistemazione in roulotte.
“Perché sono qui, vi starete chidendo – scrive alla famiglia il 20 dicembre 1980 -. Molto semplice: sono parroco di questo paesino. Il lavoro non manca di certo”. Infatti, oltre all’impegno come parroco, con l’appoggio della Caritas gestì la scuola (materna, elementare e media), la mensa (150 pasti al giorno) e l’assistenza medica e infermieristica. E con attenzione osservava i cambiamenti nella comunità. “La gente si sta facendo cattiva man mano che passa il tempo, perché stanno girando somme enormi di denaro e tutti vogliono più di quello che spetterebbe. Le camorre – denunciava anticipando quanto sarebbe emerso negli anni successivi – e l’accaparramento sono da sempre in queste zone, ma adesso si fanno più vistose. Lo sciacallaggio non ne parliamo nemmeno”.
Padre Lele, ovviamente, non si arrendeva di fronte a questo. “Ho iniziato la novena di Natale. É un altro modo di avvicinare le persone. Celebro l’Eucarestia nelle loro case. Insomma cerco di farmi strada”. Così come due anni più tardi in un’altra zona “calda” della Campania. A Giugliano (“terra famosa per lutti e per la camorra organizzata”, così scrive al professor Talami) nel marzo 1982 organizza la prima marcia contro la criminalità organizzata. Guardate bene la data, 1982, ben 28 anni fa, quando di camorra non parlava quasi nessuno. E ancor meno manifestava. “Avevamo paura a marciare – ricordava padre Lele – ma, ugualmente, abbiamo cantato le beatitudini. La gente si è unita a noi durante il percorso. Mons. Riboldi vescovo di Acerra ex parroco del Belice ha marciato al nostro fianco”. Fede, coraggio e impegno.
In Campania come in Amazzonia. Così nella Settimana Santa del 1985 la sua meditazione si concentra sulla morte di Cristo “come conseguenza della sua vita”. Attraverso la morte del Figlio sulla croce, Dio assumeva il travaglio e il dolore umano per sopprimerlo. “La maniera con cui vuole sopprimerlo non è attraverso la forza né col dominio, ma per la via dell’amore. Cristo predicò e visse questa nuova dimensione. La paura della morte non lo fece desistere dal suo progetto di amore. L’amore è più forte della morte”. Per padre Lele fu così, da San Mango a Cacoal.
* da Avvenire
Trackback dal tuo sito.