Dell’Utri, Berlusconi e il pizzo alla mafia
Marcello Dell’Utri ha svolto «un’attività di “mediazione” quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa Cosa nostra, in persona del suo più influente esponente dell’epoca, Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo». È sicuramente questo uno dei passaggi più rilevanti delle motivazioni – rese note nella serata di venerdì 19 novembre – poste a base della sentenza con la quale l’uomo politico è stato condannato in appello a sette anni, perchè riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. In primo grado, il senatore era stato condannato a nove anni, mentre il 29 giugno scorso la pena era stata ridotta di due anni, al termine delle udienze davanti al collegio composto dai magistrati Dall’Acqua, La Commare e Barresi.
Oggi possiamo meglio capire le ragioni della condanna del senatore, leggendo e commentando una sentenza che, in attesa del necessario vaglio della Corte di Cassazione, viene a collocarsi in un frangente già delicato, per tanti altri motivi, per i quali ad essere in gioco è la stessa sopravvivenza dell’attuale Governo e dello stesso Presidente del Consiglio.
Una preda ambita
Secondo i giudici palermitani, quindi, è certamente configurabile il reato ipotizzato a carico di Dell’Utri, perché «ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso», fungendo, nell’arco temporale di due decenni, da «specifico canale di collegamento» tra Berlusconi e le cosche siciliane. «Amichevoli e continuativi rapporti con esponenti mafiosi»; «stretto contatto con i vertici di cosa nostra»; «consapevole e valido contributo al consolidamento ed al rafforzamento del sodalizio mafioso»: queste sono soltanto alcune delle espressioni riferite ad un senatore della Repubblica, tuttora in carica che si possono evincere dall’analisi delle motivazioni.
È vero che nessuno è colpevole fino alla sentenza definitiva e quindi dobbiamo attendere l’esito della Cassazione, ma nella sentenza d’appello sono contenuti tali e tanti riferimenti precisi alle relazioni pericolose di Dell’Utri e Berlusconi che dovrebbero spingere entrambi a prendere in forte considerazione l’ipotesi di fare un passo indietro. Siamo certi invece che anche questa tempesta giudiziaria finirà solo con il rinfocolare le polemiche contro le presunte violazioni alla democrazia portate dalla magistratura politicizzata. Nelle 641 pagine depositate venerdì scorso, si ricostruiscono i rapporti iniziali tra Dell’Utri e Berlusconi, identificato dalla consorteria mafiosa come uno degli imprenditori allora più facoltosi e indiziato di sicura ascesa nel panorama nazionale e per ciò stesso una preda del tutto ambita da «agganciare» ad ogni costo.
Un intraprendente tycoon che, a partire dai primi affari realizzati nel campo dell’edilizia – dall’Edilnord di Brugherio a Milano 2, complessi residenziali portati a termine in spregio dei piani regolatori, grazie ad una serie di relazioni quanto meno discutibili con la classe politica locale, alcune delle quali finite sotto i riflettori della magistratura – si affacciava con sicumera sul mercato delle tv commerciali. Quelle stesse tv che, da lì in avanti e nel giro di due decenni, ne avrebbero consolidato il potere economico e politico, fino alla successiva discesa in campo avvenuta nel 1994. In sostanza Dell’Utri avrebbe favorito consapevolmente e ripetutamente un «rapporto parassitario», vale a dire un’attività estorsiva vera e propria attuata dai vertici di Cosa Nostra in danno di Berlusconi, «imponendogli sistematicamente il pagamento di ingenti somme di denaro in cambio di “protezione” personale e familiare».
Da stalliere a eroe
Ecco così spiegato il ruolo di Vittorio Mangano, l’uomo d’onore del quartiere palermitano di Porta Nuova che, nel 1974, viene presentato alla villa di Arcore con la qualifica formale di «stalliere», ma in realtà con il compito, più prosaico, di proteggere Berlusconi e i suoi familiari dai possibili tentativi di sequestro e dalle minacce di varia natura. Che Mangano non si trovi in Brianza soltanto per accudire dei cavalli, lo comprendono già tutti quelli che all’epoca hanno modo di vederlo muoversi a fianco del presunto datore di lavoro. Non è certo l’esperto fattore che, a distanza di anni, sia Berlusconi sia Dell’Utri cercheranno di accreditare con ricostruzioni forzate, arrivando a definirlo «eroe» per aver resistito al pressing dei magistrati in cerca delle prove di colpevolezza a carico dei due. Mangano, viceversa, è la fidata sentinella posta a garanzia del patto stretto tra i boss palermitani e l’imprenditore milanese. Mangano è l’uomo di fiducia che, prima di garantire Berlusconi dalle minacce esterne alla sua famiglia di sangue, ne mantiene il controllo da vicino per conto di ben altra “famiglia”, quella di Cosa Nostra, dove ogni giuramento, ogni patto è fondato sul sangue e non può essere violato, pena la morte.
Resta ora da capire perché i rapporti, accertati anche dalle agende dello stesso Dell’Utri, intercorsi con il Mangano anche negli anni successivi al 1992, non siano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’Appello, o meglio, lo siano stati ai fini dell’esclusione di una loro rilevanza ai fini dell’appesantimento della condanna, tanto da portare ad una riduzione di pena. Con questa loro decisione, con questa scelta di non ritenere in essere alcun legame tra Berlusconi e le cosche dopo il 1992, i magistrati passano un colpo di spugna sulla presunta seconda fase del rapporto criminale e criminogeno, quella in cui il Cavaliere smette i panni dell’imprenditore rampante per assumere le vesti del leader politico, fino a diventare l’attuale Presidente del Consiglio. È questo uno spiraglio che lascia intravedere addirittura la possibilità del ribaltamento davanti alla Suprema Corte del duplice verdetto di condanna. È questa la breccia nella ricostruzione storica che Dell’Utri e i suoi legali cercheranno di utilizzare fino in fondo, per arrivare ad una assoluzione che sarebbe davvero clamorosa.
Denunciare? Non conviene
Tornando invece a quanto è evidenziato nelle motivazioni, il quadro che emerge vede un fitto tessuto di relazioni e incontri che vedono protagonisti Berlusconi, Dell’Utri, Bontate, Teresi e Cinà negli uffici dell’imprenditore, all’ombra del Duomo. Il contesto storico di allora è fondamentale per inquadrare questi rapporti inconfessabili, perché é proprio a metà degli anni Settanta che il Cavaliere pone le basi per il suo potere mediatico e, ancora una volta secondo la ricostruzione fatta in sede processuale, i legami con la mafia, volti a garantire la protezione della propria famiglia, diventano ancora più stretti nel percorso di progressiva acquisizione e successivo controllo delle emittenti e dei ripetitori in alcune regioni. Sicuramente in Sicilia, dove la Fininvest deve versare un contributo costante nelle casse di Cosa Nostra per garantire incolumità a persone e strutture.
Nella sentenza al riguardo si legge: «Si ha conferma che almeno negli anni ’70 e ’80 il Berlusconi, pur di stare tranquillo, preferisse trovare soluzioni accomodanti subendo o accettando richieste estorsive piuttosto che rifiutarle denunciando i fatti all’Autorità». Oggi primo ministro, ieri magnate di successo, costretto però a pagare il pizzo alla mafia per poter lavorare in pace. Come tanti imprenditori che, ancora oggi pagano per lavorare e che sono invitati dal Governo a denunciare le estorsioni subite: un elemento di pesante contraddizione, se si pensa che oggi a capo dell’esecutivo si trova chi, ieri, nella stessa situazione, anziché andare dalle forze dell’ordine preferì pagare, senza proferire verbo.
Un ricatto iniziato quando al vertice della cupola mafiosa sedeva il palermitano Bontate e continuato nel tempo, anche quando gli equilibri dentro Cosa Nostra mutarono sotto i colpi della strategia dei “viddani” che portarono alla guida della mafia il corleonese Totò Riina.
Nessun patto
Ad una prima lettura delle motivazioni, è quindi ritenuta credibile la ricostruzione offerta dal boss Francesco Di Carlo, oggi collaboratore di giustizia che ha fornito ai giudici una serie di riscontri che provano la familiarità di Dell’Utri con la mafia siciliana. Al contrario non viene ritenuto credibile un altro «pentito» che pure ha deposto nel corso del processo, nell’udienza tenutasi a Torino. I giudici della Corte d’Appello, infatti, non ritengono rilevanti le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza in merito al presunto «patto di scambio» che sarebbe stato l’esito delle diverse trattative, instauratisi tra la stagione delle stragi e la nascita di Forza Italia, con la discesa in campo del Cavaliere. È un’accusa che è bollata dai magistrati palermitani in modo assolutamente netto, arrivando a sottolinearne la «palese genericità»; non si ritiene provata l’esistenza di un patto di natura politica tra l’imprenditore che entra in politica e i boss che perdono una sicura entrata.
Ecco cosa dice la sentenza al riguardo: «Non risulta infatti provato -si legge nella motivazione- né che l’imputato Marcello Dell’Utri abbia assunto impegni nei riguardi del sodalizio mafioso, né che tali pretesi impegni, il cui contenuto riferito da taluni collaboranti (generica promessa di interventi legislativi e di modifiche normative) difetta di ogni specificità e concretezza, siano stati in alcun modo rispettati ovvero abbiano comunque efficacemente ed effettivamente inciso sulla conservazione e sul rafforzamento del sodalizio mafioso». Ecco perché il 1992 diventa un anno cruciale nella ricostruzione dei fatti, il vero e proprio spartiacque nel giudizio finale e anche la causa principale della riduzione della condanna per il senatore, nel passaggio dal primo al secondo grado di giudizio. Nel 1992 cessano i pagamenti di Berlusconi alle cosche, secondo quanto riportato dai collaboratori di giustizia. Nel 1992 cessano anche, secondo la sentenza, i rapporti di Dell’Utri con i boss.
Ciancimino? Non è attendibile
Avendo la Corte d’Appello raggiunta una tale convinzione, se ne comprende anche il giudizio espresso nei riguardi di Massimo Ciancimino, uno dei figli dell’ex sindaco di Palermo, quel Don Vito che si barcamenava a suo agio tra mafiosi, imprenditori e uomini dei servizi segreti. La sua testimonianza, richiesta dalla pubblica accusa, è stata respinta, non senza polemiche.
I giudici pongono in rilievi silenzio, osservato per oltre un anno dei presunti rapporti tra Provenzano e Dell’Utri, salvo poi fare dichiarazioni tardive al proposito e arrivano quindi a «dubitare più che fondatamente della credibilità ed affidabilità di un soggetto come Massimo Ciancimino finora rivelatosi, sulla base degli atti esaminati dalla Corte e con riferimento a quanto riferito sul conto dell’ imputato, autore di altalenanti dichiarazioni che non ha esitato a rettificare o ribaltare nel tempo con estrema disinvoltura, senza supportare le sue oggettive contraddizioni con giustificazioni ragionevoli, accreditandosi come portatore di presunte conoscenze, quasi sempre de relato, perché attribuite alle pretese, ma non verificabili, rivelazioni di un padre defunto».
Così escono dal processo Dell’Utri tutte le ultime ipotesi investigative sulla trattativa e su quanto avvenne in quegli anni cruciali per la Repubblica. Anni in cui Berlusconi avrebbe smesso di pagare la mafia, per dedicarsi all’avventura politica e Dell’Utri avrebbe cessato la sua funzione di mediatore tra i boss e il Cavaliere per aiutarlo nella sua ultima impresa. Una sorta di “sindrome di Stoccolma” dove però diventa difficile capire chi è il carceriere e chi il carcerato. In tutto questo resta da capire come mai e perché i boss si sarebbero rassegnati a perdere le uova d’ora, senza sacrificare la gallina che fino ad allora le aveva sfornate per loro in gran quantità.
«È una materia trita e ritrita»
Raggiunto nella serata da alcuni colleghi, il senatore del PdL, dopo aver premesso di non aver letto le motivazioni, se non grazie alle anticipazioni battute dalle agenzie, e di non voler entrare nel merito, ha dichiarato che le accuse sono le stesse contenute nella sentenza di primo grado e si detto pronto a dar battaglia in Cassazione: «fino all’ultimo momento, altrimenti che faccio, mi uccido?». Il senatore non dimostra quindi per niente di essere preoccupato, anzi manifesta la consueta sicumera: «Non vedo come mi possono condannare sul nulla».
E mentre le opposizioni rilanciano la richiesta di dimissioni, pronte a muoversi anche per la mozione di sfiducia in Parlamento, vanno ancora una volta sottolineati i silenzi imbarazzati e imbarazzanti di TG1 e TG5 nei titoli delle principali edizioni serali. Berlusconi, invece, che si trova a Lisbona per il vertice della Nato, in questo momento ha altre grane pronte a esplodere sotto la sua poltrona di primo ministro: dal rapporto con Futuro e Libertà alla defezione annunciata in queste ore del ministro Mara Carfagna, vittima della lotta intestina al Pdl in Campania, una lotta intestina sulla quale si allungano, ancora una volta, le ombre lunghe dei rapporti tra mafia – in questo caso specifico camorra – e politica.
La vendetta della mafia continua, ma questa volta non ha le sembianze seducenti di una minorenne..
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