Siamo preoccupati per l’Italia
La libertà di informazione non è un diritto assoluto, anzi: «In democrazia non esistono diritti assoluti, perchè ciascun diritto incontra il proprio limite negli altri diritti egualmente meritevoli di tutela che, in caso della privacy, sono prioritariamente meritevoli di tutela ». Parola del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Un classico nel repertorio del Premier che a più riprese ha sempre criticato la stampa italiana, arrivando ad affermare che: «In Italia c’è fin troppa libertà di informazione ». Ovvero che i giornalisti nel nostro Paese sono talmente liberi da poter scrivere di tutto e di più arrivando a ledere il fondamentale diritto alla privacy.
Un’eccessiva libertà che, effettivamente, l’esecutivo ha cercato di limitare cercando di adottare provvedimenti che, come il lodo Alfano sulle intercettazioni telefoniche, avrebbero introdotto misure repressive nei confronti di giornalisti ed editori che avrebbero pubblicato conversazioni telefoniche o ambientali. Impedendo, inoltre, agli organi inquirenti di utilizzare questi strumenti per le indagini. Un bavaglio all’informazione che, fortunatamente per ora, si trova in un binario morto. Ma che avrebbe, se adottato, danneggiato gravemente magistrati, forze di polizia e giornalisti. Chi indaga e chi di queste indagini scrive. D’altronde si sa, Berlusconi ha un’ottima considerazione delle due categorie. Come ha ripetuto numerose volte, infatti, per il premier: «Se vuoi fare del male devi essere un delinquente, un magistrato o un giornalista».
Che lo stato dell’informazione nel nostro Paese non sia tutto rose e fiori è un dato di fatto, e suscita preoccupazioni sia in Italia che all’estero. Nell’analisi redatta annualmente da Freedom House l’Italia è scivolata tra i paesi parzialmente liberi per due principali motivi: il conflitto di interessi del Premier Gaetano Liardo L L’ultima immagine di Lea Garofalo a Milano e l’influenza della criminalità organizzata che impedisce ai giornalisti di scrivere e fare chiarezza sugli interessi illeciti dei boss. Questa settimana è arrivata in Italia una delegazione dell’International Press Institute di Vienna (Ipi), un network internazionale fondato nel 1950 a New York che si pone come obiettivi: «La salvaguardia della libertà di stampa, la protezione della libertà di opinione e di espressione, la promozione di un libera flusso di notizie e informazioni».
Tra i compiti dell’IPI c’è quello di valutare lo stato della libertà di informazione nel mondo. Tra gli ultimi paesi visitati e analizzati figurano il Bangladesh, la Sri Lanka, il Nepal, e l’Italia. Segnale questo delle forti preoccupazioni che l’azione dell’esecutivo sta destando in tutto il mondo nei confronti della stampa e dell’informazione. Nel corso della missione italiana la delegazione dell’Ipi ha incontrato anche Libera Informazione e l’Osservatorio Ossigeno promosso dalla Fnsi e dall’Ordine dei giornalisti, per cercare di capire quanto la criminalità organizzata, il mondo politico e imprenditoriale incidano sull’effettiva libertà dei cronisti di svolgere il proprio mestiere. Dagli incontri svolti a Roma il quadro presentato è sicuramente allarmante: chi fa informazione in Italia, anche in piccoli giornali o emittenti locali è soggetto alla ritorsione dei boss o a quella più subdola di politici o imprenditori. Dal rapporto Ossigeno, presentato recentemente a Napoli e illustrato all’IPI da Alberto Spampinato con dati aggiornati, emerge una situazione da allarme rosso. Sono quasi 400 i giornalisti che negli ultimi anni hanno subito minacce mafiose in Italia, 78 solo nel 2010. La maggior parte delle minacce, lettere minatorie, telefonate anonimi, aggressioni fisiche, danneggiamenti, pedinamenti, sono state rivolte ai giornalisti calabresi. Venti di loro nel 2010 hanno dovuto subire l’aggressione dei boss.
Come i sedici giornalisti del Lazio e i venti siciliani e campani. Molte anche le minacce agli operatori dell’informazione del centro – nord. Come se non bastasse la violenza mafiosa, spesso i cronisti devono fronteggiare l’arroganza dei politici, locali e nazionali, pronti a chiedere esorbitanti risarcimenti economici per i “danni” subiti dall’autore di un articolo. Richieste che vanno dai 50.000 a svariati milioni di euro, e che incidono pesantemente sul lavoro di cronisti che, nella migliore delle ipotesi guadagnano il minimo per sopravvivere. Le proposte, a tal proposito, presentate da Libera Informazione, Libera, la Fnsi, Articolo 21 e tutte le principali associazioni di categoria vanno verso la depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa, lasciando ampio spazio alla sfera etica. Non i giudici, ma una commissione indipendente dovrebbe essere chiamata a valutare l’operato di un giornalista. Non risarcimenti milionari ma il rispetto della rettifica e del diritto di replica. Sui risarcimenti e sulle querele “temerarie” il prossimo 17 novembre si svolgerà un convegno nazionale.
Parteciperanno i sindacati dei giornalisti, il mondo dell’associazionismo, avvocati, giuristi e politici che da anni lavorano su quella che è vista come una pericolosa e subdola minaccia alla libertà di informazione. Riuniti per disegnare una nuova rotta che muove in direzione opposta a quella indicata da Berlusconi: non un bavaglio ma il rispetto dell’articolo 21 della Costituzione.
Trackback dal tuo sito.