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Omicidio Rostagno, si va in Corte di Assise

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Dagli studi della televisione privata di Trapani, Rtc, Mauro Rostagno mandava in onda ogni giorno servizi, notizie, approfondimenti che prendevano di mira la mafia e i suoi intrecci con il sistema di potere trapanese. Il giornalismo di Rostagno dava «fastidio», come ha riferito il pentito Francesco Milazzo, e per questo la mafia lo uccise. Dopo 22 anni si avvicina il momento della verità: il gup del tribunale di Palermo, Estorina Contino, ha rinviato a giudizio il boss Vincenzo Virga e il killer Vito Mazzara. Per i pm Antonio Ingroia e Gaetano Paci, Virga sarebbe il mandante dell’agguato e Mazzara uno dei tre esecutori materiali. Li inchiodano i risultati di una perizia balistica ripetuta due volte che collega l’agguato a Rostagno ad altri delitti di mafia per i quali i due indagati stanno scontando l’ergastolo.

Una perizia balistica che si è fatta grazie all’intuizione di un ispettore della Squadra Mobile di Trapani che fece scoprire al proprio dirigente, il dott. Giuseppe Linares, che questa perizia non era stata più ripetuta dopo il 1988, non c’era stata alcuna comparazione anche con i delitti precedenti a quello di Rostagno. Le cartucce mese a confronto fecero scoprire che anche su quelle sulla scena del crimine del delitto Rostagno c’era la firma di Cosa Nostra.

La sera del 26 settembre 1988 il giornalista-sociologo, che negli anni ’70 era stato uno dei leader di Lotta Continua e l’animatore del centro sociale «Macondo» di Milano, aveva appena lasciato gli studi della tv. In auto stava rientrando nella comunità «Saman» per tossicodipendenti che aveva fondato con la compagna Chicca Roveri e il “guru” Francesco Cardella. La sua auto venne fermata. La Duna di Rostagno fu trovata con la prima marcia ingranata. Rostagno stava percorrendo l’ultimo tratto di una stradina buia quella sera (qualcuno si scoprirà dopo aveva interrotto appositamente la corrente elettrica sulla pubblica via) nella frazione di Lenzi, a una decina di metri dal cancello della Saman.

Sicuramente al bivio dove la macchina si fermò doveva esserci qualcuno che forse Rostagno conosceva, arrestò la marcia e mise la prima, come se dovesse parlare, e invece ad attenderlo c’erano degli assassini. L’auto fu circondata da un commando. Rostagno viaggiava con Monica Serra, lui ebbe solo il tempo di consigliarle di accucciarsi sotto davanti al sedile passeggero per evitare che rimanesse colpita, fu la Serra poi a scendere a dare l’allarme in comunità, quando Rostagno era già morto. A togliere la luce quella sera sarebbe stato un operaio dell’ Enel, tale Vincenzo Mastrantonio che di secondo lavoro faceva l’autista dell’allora insospettato capo mafia Vincenzo Virga. Mastrantonio però aveva il vizio di non tenere tanto per sé i segreti, il pentito Milazzo da lui seppe alcune cose del delitto, come seppe anche che l’ordine di uccidere Milazzo arrivò un giorno da Mazara, dal clan degli Agate, e Mastrantonio pochi mesi dopo l’omicidio Rostagno fu anche lui fatto fuori. Il delitto Rostagno invece fu deciso in casa del padrino di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro. Dava fastidio Rostagno ai mafiosi.

Non è stato facile arrivare a vedere imputata Cosa Nostra dell’omicidio. Le indagini nel tempo hanno seguito le piste più svariate. Quella «interna», che conduceva a contrasti di tipo anche privato tra i gestori di «Saman», ha tenuto a lungo impegnati gli investigatori. E alla fine è stata accantonata con l’archiviazione, anche se dentro quell’indagine è rimasta dubbia la posizione del guru Cardella, indagato prima per favoreggiamento e poi per concorso nel delitto: i pm scrivono che restano contro di lui indizi di un «certo spessore», che non hanno mai raggiunto un grado di gravità tale da giustificare un’incriminazione.

Un’altra pista seguita porta a un «tavolino» nel quale si sarebbe discussa a quel tempo la spartizione di appalti di opere pubbliche in provincia di Trapani con l’intervento della mafia e l’ombra della massoneria. E questo sarebbe stato il contesto del delitto messo a fuoco dall’inchiesta. Sullo sfondo si intravedono gli equilibri e gli accordi sotterranei che all’epoca saldarono gli interessi del sistema di potere di una città dove la mafia ha avuto a lungo il controllo degli affari e ha fortemente condizionato la politica. La svolta è venuta dalla perizia balistica che ha fatto emergere la figura e il ruolo di Virga. Per ridurre Rostagno al silenzio fu usato anche un fucile calibro 12 impugnato dal killer che nel 1995 uccise il poliziotto Giuseppe Montalto. In un caso e nell’altro il sicario si sarebbe dimostrato un tiratore infallibile. La ragazza che era in auto con Rostagno rimase incolume. E analogamente vennero risparmiate dal fuoco la moglie e la figlia di Montalto. Tanta precisione, secondo l’accusa, porta il «timbro» di Mazzara.

Il movente del delitto è da ricercarsi nel fine che la mafia aveva di zittire quel giornalista, ha sostenuto ieri durante l’udienza preliminare il pm Ingroia, era quel modo di fare giornalismo, corretto senza dubbio, ma da non tutti i giornalisti praticato, ancora oggi, con il quale ogni giorno Rostagno attaccava mafia e mafiosi. Forse potrebbe esserci stato anche altro, ha aggiunto Ingroia, la storia del traffico di armi scoperto sulla pista di un aeroporto ufficialmente chiuso, la registrazione di quello scambio che Rostagno con una telecamerina sarebbe riuscito a fare, tenendo per qualche giorno sul suo tavolo quella cassetta, sparita dopo la sua uccisione. C’è anche il capitolo della presenza di Gladio a Trapani che non è poco cosa in questo scenario. Ma anche se ci fosse tutto questo dentro al movente ha detto Ingroia, già bastava ad ucciderlo la motivazione che lui faceva il giornalista in una maniera che infastidiva i boss, i commenti dei capi mafia, acidi contro di lui, li hanno ricordati via via una serie di pentiti.

Un processo importante, ma che comincia male, senza la società civile. Dov’erano ieri i sindaci che fino a pochi giorni addietro lamentavano che morto Rostagno è morto a Trapani il giornalismo investigativo? Circostanza questa che meritava, a loro dire, la collocazione di una stele a memoria del delitto sul luogo dove fu ucciso Rostagno. Dov’erano pure le amministrazioni locali che fanno grandi sfarzi degli impegni per la legalità e continuano a disertare le costituzioni di parte civile nei processi? E la società civile? E gli «amici» dell’associazionismo? E ancora l’ordine dei giornalisti? L’udienza preliminare davanti al gup Estorina Contino per la richiesta di rinvio a giudizio dei presunti mandanti e esecutori del delitto Rostagno, e cioè il capo mafia Vincenzo Virga e il killer Vito Mazzara (attribuzioni queste certe per il passato in giudicato di diverse sentenze) si è svolta con la presenza dei familiari del giornalista e sociologo ucciso il 26 settembre 1988 a Lenzi, unici, assieme alla comunità Saman, a costituirsi parte civile.

Sicuramente all’avvio del dibattimento in Corte di Assise (2 febbraio 2011) giungeranno altri a costituirsi, come l’associazione «Ciao Mauro» che l’ha già anticipato, ma come fa notare anche Chicca Roveri (la compagna di Mauro, unica dei familiari ieri  a Palermo nell’aula dell’udienza preliminare) parlando senza precisi destinatari ma in generale, «sarebbe stato importante esserci. Io – dice Chicca – non ci speravo più che si giungesse al processo, oggi questo deve essere una buona occasione, non per Mauro che non potrà più esserci, ma per noi che ci siamo, che siamo vivi, è una occasione da non perdere e che avrà senso se la gente deciderà di svegliarsi».

«Ma com’è che non c’è nessuno della società civile – si è chiesto il pm della Dda Gaetano Paci – questo è un processo che ha anche bisogno della società civile, di quella che ha raccolto le firme per fare continuare le indagini, per non farle fermare». La società civile che non deve dimenticare di avere mes
so «paura» ad uno degli imputati, Vito Mazzara, che intercettato in carcere, a colloquio con i suoi familiari, si lamentava proprio della raccolta delle firme cosa che lui aveva saputo leggendo i quotidiani regionali, «l’indagine la stavano archiviando, ora ci sono questi che raccolgono le firme».
D’altra parte Trapani è la città dove ci sono voluti 20 anni, dal delitto, per intestare una via a Mauro Rostagno, poco più di un mese nel 2005 per fare nascere al porto la via dei grandi eventi, appunto a 30 giorni dalle gare di Coppa America.

Sullo sfondo di tutto resta poi la figura del nuovo capo di Cosa Nostra, il latitante Matteo Messina Denaro. Già perchè a casa sua, a Castelvetrano, in via Alberto Mario 5, i boss si ritrovarono un giorno del 1988 a decidere di uccidere Rostagno. Oggi di Messina Denaro la Dia disegna un quadro preciso. C’è un network strutturato che protegge il latitante numero 1 della mafia siciliana, il castelvetranese Matteo Messina Denaro e gestisce le sue comunicazioni con regole ferree. È quanto emerge dalla relazione del primo semestre 2010 inviata dalla Dia (Direzione investigativa antimafia) al Parlamento.
La relazione, che fa riferimento alle più recenti operazioni antimafia condotte dalla Polizia (operazioni Golem) evidenzia la presenza di «un nutrito gruppo di soggetti, abilmente mimetizzati nel tessuto sociale, investiti del delicato compito di porre in essere attività strumentali all’esistenza ed alla vitalità stessa della compagine mafiosa».

A differenza di quanto accadeva con Bernardo Provenzano, il network delle comunicazioni di Messina Denaro è molto strutturato e «caratterizzato dall’osservanza di due regole ferree: il divieto di lasciare traccia materiale sia dei biglietti che dei movimenti posti in essere per le attività di consegna/prelievo degli stessi, nonchè nel ridurre al minimo il numero dei tramiti e le occasioni in cui la “posta” viene veicolata».
Il ministro dell’Interno Maroni prendendo spunto dalla cattura del capo latitante dei Casalesi, ha detto che è questione di poco tempo che toccherà anche al mafioso Messina Denaro. Poco trapela di ufficiale su cosa in concreto lo Stato sta facendo per assicurare alle patrie galere il sanguinario boss. Si ha più l’impressione che al Viminale si stanno muovendo come su di uno scacchiere spostando i funzionari e gli investigatori ora in un punto ora in un altro, come se fossero delle pedine, senza forse adeguatamente pensare ad organizzare la migliore delle investigazioni da mettere in campo, proprio per quel «network» di complici che protegge Messina Denaro.

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