Gela: le ammissioni di un imprenditore
«Per anni, ho dovuto pagare mensilmente fino a mille euro a stidda e cosa nostra, altrimenti non avrei potuto operare a Gela», queste le parole pronunciate da Salvatore Luca, titolare di un’importante società che si occupa della vendita di automobili. La testimonianza dell’imprenditore è giunta nel corso del processo “Mizecar”, celebrato difronte ai giudici del Tribunale di Gela e sorto da una serie di inchieste incentrate sul business dell’imposizione del pizzo.
«Gli interessi della criminalità – ha raccontato Luca – iniziarono a manifestarsi già nei primi anni ’80, quando avviai un’attività di vendita di auto usate, per poi rafforzarsi con l’ampliamento della mia azienda». Ma i soldi, a detta del testimone, non erano sufficienti: bisognava garantire agli uomini dei clan grossi sconti sull’acquisto dei modelli più esclusivi. «A farsi avanti per primi – ha proseguito l’imprenditore – furono gli stiddari, pagavo direttamente ai loro esattori, poi fu la volta di quelli di cosa nostra, prima Maurizio Morreale e poi Rosario Trubia».
Stando alla sua testimonianza, «normalmente i versamenti dovevano essere effettuati a ridosso delle principali festività, arrivai, però, a consegnare anche un milione e mezzo delle vecchie lire al mese ai clan, che poi, con l’avvento della nuova moneta, vennero convertiti in 700 euro». Gli uomini di stidda e cosa nostra avevano individuato la concessionaria come punto sensibile da non poter sottovalutare: un’azienda ben avviata che poteva garantire costanti profitti.
Salvatore Luca, affiancato dal figlio Rocco, decise, invece, di denunciare, dopo anni di costanti richieste giunte direttamente dai vertici della criminalità organizzata gelese. Oggi, continuano a gestire una delle più conosciute concessionarie del meridione e, in qualità di parti civili, attendono il verdetto che i giudici del Tribunale di Gela emetteranno nei confronti dei loro presunti estorsori.
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