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C’è un’altra Rosarno: affitti e contratti in regola

Di Toni Mira* il . Calabria

Una piccola casa, due appartamentini, stanze a tre letti, sala da pranzo, cucina e bagno. Tutto ordinato e pulito. Così vivono 12 immigrati africani. E come loro altri 40. Tutti regolari. Pagano 50 euro al mese e i proprietari forniscono anche la luce e l’acqua. Garantisce la parrocchia. Benvenuti nell’altra Calabria, quella bella e accogliente. Con efficienza. Siamo a Drosi, frazione di Rizziconi, grosso centro al confine con Rosarno. Nove mesi fa anche qui c’era un ghetto terribile, la “collina di Rizziconi”, 500 immigrati in una baraccopoli su un terreno confiscato alla ‘ndrangheta e mai utilizzato. Oggi Drosi è un esempio di intelligente integrazione.

Protagonista la parrocchia di San Martino e i suoi animatori Caritas. «Continuiamo a donare il nostro mezzo mantello – dice sorridendo il parroco, don Nino Larocca -. Non siamo eroi, siamo semplicemente cristiani». Non solo parole. A partire da dati certi. «Non si sa mai quanti siano davvero gli immigrati. E allora il monitoraggio lo facciamo noi – spiega uno degli animatori, Francesco Galluccio, per tutti “Ciccio” -. Oggi nel nostro territorio ci sono 180 africani e 80 rumeni». Conoscere per operare al meglio. Da anni la parrocchia aiuta gli immigrati: alimenti, vestiti, assistenza sanitaria. Un giorno a settimana funziona la mensa ma, spiega don Nino, «preferiamo distribuire viveri, perché siano loro a cucinare in autonomia e responsabilità».

Questo è proprio il senso della scelta parrocchiale. Dopo i fatti di Rosarno, dopo lo sgombero forzato della “collina”, parte il progetto degli appartamenti, che ospitano 50 immigrati, alcuni reduci di quel ghetto. «Ci siamo proposti come garanti nei confronti dei proprietari – dice ancora don Nino -. È come se li prendessimo noi, in affitto». Sono otto gli appartamenti, tutti arredati, ma si spera di aumentarli. In ognuno un piccolo gruppo. «In pochi stanno meglio, sono in mezzo alla gente, c’è più integrazione», dice Francesco. Una ricetta semplice, da esportare negli altri comuni. «Dare una casa – aggiunge don Nino – vuol dire garantire un tetto ma anche renderli autonomi. Per questo vogliamo che paghino l’affitto. Così li educhiamo alla responsabilità.

Questa è la vera integrazione». E gli immigrati sono più che soddisfatti. Ibrahim, 27 anni, è arrivato dopo i fatti di Rosarno, mentre Mamadou, 38, era qui da prima. Sono rifugiati col permesso di soggiorno. Oggi non lavorano, ma le scorse settimane hanno avuto contratti regolari. «È giusto essere in regola, anche noi vogliamo rispettare la legge. Ma non si dovrebbe aspettare tanto per avere il permesso di soggiorno, anche più di sei mesi». Ci fanno vedere l’appartamento. Tutto in ordine, pulito. «Siamo molto contenti. Stiamo bene qui a Drosi, non abbiamo paura. C’è gente buona e gente cattiva, come tra noi immigrati». Altri, meno fortunati, continuano a vivere nelle campagne ma la parrocchia non li abbandona. L’importante è «avere gente disposta a sporcarsi le mani», sottolinea il parroco. Come i 30 animatori della Caritas.

La gente di Drosi è veramente pronta all’accoglienza. «Quando a Rosarno c’era la caccia al nero qui la nostra gente li ha difesi». E gran parte degli immigrati lavora con contratti regolari. Proprio davanti al centro della Caritas, un gruppo di lavoratori sta raccogliendo crisantemi. Italiane, romeni e quattro africani. Il giovane titolare dell’impresa, Ettore Straputicari, spiega che per lui è «giusto e normale». «Già l’anno scorso per la raccolta delle clementine ho assunto in regola 20 immigrati, fornendo anche vitto e alloggio». Certo non è facile. Lui quest’anno le clementine le ha vendute a 20 centesimi al chilo, quelle che nei negozi compriamo a 2 euro. Altri sarebbero tentati di risparmiare sul salario degli immigrati. Ettore no. «Io scelgo la strada della legalità e per fortuna anche altri imprenditori». Una scelta di famiglia. Caterina, sua mamma, quando gente di Rosarno è venuta in questa zona per “punire” gli immigrati, si è messa in mezzo alla strada per difenderli: «E ora picchiate me!».           

* da L’Avvenire

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