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Lea Garofalo, sola contro la ‘ndrangheta

Di Gaetano Liardo il . Calabria

Sequestrata, uccisa e poi sciolta nell’acido. Muore così Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia calabrese. Una storia, la sua, piena di tormenti, delusioni e solitudine. Decide di collaborare con la giustizia, le sue dichiarazioni tirano in ballo le famiglie mafiose di Petilia Policastro nel crotonese, ad iniziare dal compagno con cui aveva scelto di vivere. E’ costretta a fuggire, si nasconde. Lo Stato, che dovrebbe aiutarla, segue distrattamente la sua situazione, fino ad arrivare a negarle la tutela. Infine la violenta uccisione per mano dell’ex compagno in Lombardia. Ne parliamo con Enza Rando, responsabile dell’ufficio legale di Libera, che ha seguito da vicino le ultime vicende umane di Lea Garofalo.

Avvocato Rando, Lea Garofalo ha deciso di mettersi in gioco collaborando con la giustizia. La sua è stata una fine terribile. Perchè lo Stato non è riuscita a tutelarla?

 Esiste una legge, la legge N. 45/2001, che regola la protezione di coloro che collaborano con la giustizia, cioè disciplina i diritti e i doveri dei testimoni e dei collaboratori di giustizia. Lea Garofalo, pur non essendo stata mai indagata per reati di mafia, provenendo da un contesto mafioso è stata considerata collaboratrice di giustizia. E’ entrata nel sistema di protezione, facendo dichiarazioni dalle quali non è scaturito un autonomo processo. Libera ha conosciuto Lea quando era in atto un ricorso al Consiglio di Stato per riottenere la protezione. Lea sosteneva che, nonostante non si fosse celebrato alcun processo, dalle sue dichiarazioni è scaturita la vendetta della ‘ndrangheta.

Una donna che collabora è una grande sfida nei confronti delle organizzazioni criminali, specialmente in Calabria…

Quella di Lea è stata una situazione emblematica, una donna che ha scelto di collaborare con la giustizia in un sistema in cui il ruolo della famiglia è centrale. «Avevo capito che non volevo più altra violenza sulla violenza», ci raccontava Lea. Aveva cercato di cambiare vita. Ma con la sua scelta ha rotto l’equilibrio all’interno della famiglia mafiosa, e per questo è andata incontro alla vendetta più violenta del codice mafioso: sequestrata e sciolta nell’acido. Il suo è uno dei rarissimi casi di violenza così efferata nei confronti di un testimone o collaboratore di giustizia. Da moltissimi anni non si assisteva a omicidi del genere, dall’uccisione del piccolo Di Matteo. Lea diceva spesso: «io ce la voglio fare, e spero che Dio mi aiuti in questo». Lea era una donna sola con la sua bambina, quando le sono state applicate le misure di protezione, è stata presa e portata in una località per lei nuova. E’ stata costretta ad interrompere il sistema di relazioni affettive e di amicizie, trovandosi di colpo in uno stato di profonda solitudine. Lea si avvicinò a Libera quando seguì in un convegno pubblico l’intervento di don Luigi Ciotti. Le parole che ascoltò la convinsero che quella da lei fatta fosse stata la scelta giusta. Si avvicinò a noi, era una persona dilaniata dentro.

Perchè le fu revocato il programma di protezione?
Perchè dalle sue dichiarazioni non scaturì un autonomo processo. Tuttavia proprio dopo aver iniziato a collaborare le uccisero il fratello. Lea fece ricorso contro la revoca del piano provvisorio di protezione, ed è stata riammessa con sentenza del Consiglio di Stato. Era una donna sola e triste che aveva bisogno di trovare una mano tesa, non di cercare un turo senza paura e senza dovere più scappare. Purtroppo non fu così. Ha denunciato il tentativo di sequestro da parte di un uomo spacciaper idraulico. Ha denunciato, ma le denunce non trovarono la giusta e logica valutazione, e cioè che Lea e la figlia erano veramente in pericolo. Restò sola «Non sapevamo cosa fare, dove anche perchè Campobasso non era più sicura e  siamo tornati in Calabria», ci raccontò Lea. Lì non usciva mai, si sentiva braccata. Quando l’abbiamo incontrata ho visto nel suo volto la solitudine, la disperazione ma la voglia di continuare a lottare e di volercela fare. Ci siamo impegnati ad aiutarla, a trovare un luogo sicuro andare, protetta da una rete di solidarietà di cui sono capaci tanti uomini e donne nel nostro Paese. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo.

Con la morte di Lea c’è molta preoccupazione per la figlia Denise. La madre è stata uccisa da un commando organizzato dal padre. Cosa pensate di fare per lei?

Abbiamo chiesto un aiuto per Denise, una ragazza dagli occhi bellissimi ma pieni di dolore. Ha perso tutto compresi i punti di riferimento, i valori per i quali la madre è morta. Da quello che ho appreso la ragazza è entrata nel programma di protezione come testimone di giustizia. La madre le ha lasciato testimone, quello di lottare per costruire un mondo più libero e senza violenza, noi continueremo a starle vicini.

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