Collaboratori, non pentiti
Leonardo Vitale, nel 1973, in presa ad una sorta di crisi mistica iniziò a raccontare i segreti della mafia, fino ad allora persa tra il mito e la leggenda. Fu preso per pazzo e chiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Uscì nel 1980 e quattro anni dopo, quando un altro mafioso, Don Masino Buscetta, cominciava a collaborare con la giustizia, Cosa Nostra diede un segnale inequivocabile uccidendo proprio Vitale, primo a rompere il giuramento del silenzio.
Seguirono numerosi omicidi di parenti e amici dei mafiosi come Contorno, Mannoia e lo stesso Buscetta, che, per un ragionamento di convenienza nella maggior parte dei casi più che per un vero e proprio pentimento, svelarono ai giudici del pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo i segreti dell’organizzazione criminale più potente al mondo.
La potenzialità dirompente del nuovo strumento ai fini processuali venne subito colta da magistrati come Falcone e Borsellino che spinsero per l’adozione di una legge simile a quella americana contro il crimine organizzato. È datata 1991 la prima normativa in materia di collaboratori di giustizia. Da allora le polemiche non sono mai venute meno. Chi lamenta l’abuso di quanti vengono in tono spregiativo definiti “pentiti”; chi invece ne ricorda lo straordinario contributo all’accertamento della verità, fermo restando che ad avvalorare le dichiarazioni di ex criminali devono concorrere altre prove scaturenti dalle indagini.
Nel 2001 un nuovo pacchetto di norme ha rivoluzionato la materia, prevedendo che quanti decidono di collaborare con lo Stato, tradendo il giuramento mafioso, devono comunicare tutto quanto è di loro conoscenza diretta o indiretta entro il termine di 180 giorni, pena il mancato utilizzo delle dichiarazioni rese. Il caso Spatuzza pone oggi emblematicamente il dubbio sulla reale validità di tali norme, quando di fatto ostacolano il perseguimento della verità.
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