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Cecenia, dieci anni dopo Antonio Russo

Di Stefano Fantino il . Internazionale



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Sono passati dieci anni da quando
Antonio Russo, giornalista italiano free-lance, fu ritrovato morto
poco fuori Tbilisi, in Georgia. Massacrato e torturato, il reporter
in forze a Radio Radicale, era in Caucaso per seguire e documentare
la guerra che Mosca stava portando avanti contro i separatisti
ceceni. Nessuno, in così tanto tempo, è riuscito a mettere qualcosa
nero su bianco, a spiegare come mai, da quel 16 ottobre 2010, non sia
venuto fuori un colpevole, né tanto meno un mandante. Rimane così,
Antonio, insieme alla sua passione e alla sua voglia di capire e
raccontare, l’ennesimo, duro caso da accettare come “danno
collaterale” di un conflitto, quello ceceno, che in tanti anni ha
dimostrato di essere tremendamente pericoloso per chi, da
giornalista, ha voluto raccontarne gli aspetti oscuri e terribili.
Non può passare in secondo piano il modo in cui Russo fu ucciso.
Dietro la sua morte si staglia l’ombra lunga di quel regime moscovita
che vedeva allora alla presidenza Vladimir Putin, tuttora padre
padrone della Russia post sovietica. Il corpo del giornalista
italiano fu ritrovato al bordo di una strada di campagna; mostrava
segni di tortura che erano stati subito individuati come quelli
tipici dell’esercito russo. Nessuna traccia, invece, del materiale
giornalistico che aveva accumulato: probabilmente scottanti
rivelazioni che aveva già anticipato alla madre qualche giorno prima
di morire, sull’uso di torture da parte di Mosca sulla popolazione
civile e sull’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito,
circostanza questa, che aveva denunciato pubblicamente nell’ultimo
intervento prima di morire.

Un mistero e una impunità che
assomigliano, tragicamente, a quello di un’altra giornalista, Anna
Politkovskaja, uccisa quattro anni fa; anche lei imprigionata nelle
trame di una Cecenia che Mosca, per anni, non ha voluto far
raccontare. E che ora, dopo la fine della seconda guerra cecena nel
2006, si trova invischiata in una guerra a bassa intensità, che
proprio nei giorni scorsi ha mostrato inquietanti episodi di
recrudescenza. Un gruppo di ribelli islamici ha attaccato il
parlamento, in corrispondenza della visita del ministro degli interni
di Mosca, mostrando che la Repubblica guidata dal filo-russo Ramzan
Kadyrov non è affatto uscita dall’oscuro tunnel della guerra civile.
Quattro persone sono infatti arrivate fino alla sede dell’Assemblea
parlamentare: dopo un’azione kamikaze che ha ucciso alcune persone,
un parte del commando è riuscita ad arrivare fino all’ufficio del
presidente del Parlamento, prima di essere eliminati dalle truppe
speciali guidate da Kadyrov stesso. Procurando però morti trai
civili e un totale di diciassette feriti e mostrando come la
riorganizzazione del fronte islamico anti-Kadyrov, e quindi
indirettamente anti-Cremlino, sia ormai un dato di fatto. E già
nell’agosto scorso un gruppo di islamici aveva tentato un attacco
contro il villaggio natale di Kadyrov. Il pugno di ferro con cui il
giovane presidente guida la repubblica autonoma di Cecenia è il
prezzo da pagare per l’accordo con Putin, che garantisce un controllo
serrato della politica interna a Kadyrov in cambio della pretesa di
indipendenza di Groznyj rispetto a Mosca. “Amo Putin”,
“Vorrei fosse presidente a vita” ha dichiarato recentemente
il presidente. Nel frattempo la Cecenia attende ancora una
pacificazione che al momento pare un miraggio.

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