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Rompere il muro dell’omertà

Di Angela De Lorenzo il . Calabria

Non c’era la bara sul’altare della chiesa della ‘Vergine del Carmelo’ di Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro, dove, giovedì 21 ottobre è stato celebrato il funerale di Lea Garofalo, la 35enne collaboratrice di giustizia sequestrata un anno fa, torturata, poi uccisa con un colpo di pistola in testa e sciolta nell’acido per non fare ritrovare il suo corpo e quindi non lasciare tracce.  Dalla casa di famiglia si è avviato verso la chiesa della frazione un corteo silente sotto un cielo grigio e piovoso, guidato, invece che dal feretro, solo da ciò che resta di quella giovane donna, il ricordo: una foto che immortala il suo sorriso in un’espressione serena ed un grande striscione con su scritto “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una sola volta”. Parole celebri di un altro, Paolo Borsellino, che della mafia non ha avuto paura, proprio come Lea Garofalo, una giovane donna nata è cresciuta in una comunità di mille anime, già tante altre volte crudelmente sporcata dal sangue sparso dalle faide locali e in una famiglia direttamente intaccata dal cancro della criminalità organizzata, che le aveva già strappato il padre ed un fratello. 

Per il coraggio di ‘parlare’ In questo contesto paradossale Lea Garofalo aveva trovato il coraggio di rompere il muro di omertà nel quale era stata educata a vivere trovando il coraggio di ‘parlare’, raccontare tutto quello che sapeva alla magistratura. Ed è per questo che ha pagato con la vita il torto fatto allo stesso padre di sua figlia, l’uomo accusato del suo omicidio e affiliato alle cosche del posto.  Quale senso dare ad una morte così atroce, oltre che prematura? Non esistono parole per parlare ad una comunità stravolta come quella che ha gremito la chiesa riempiendo tutti i posti a sedere e gli spazi del sagrato; in cui la maggior parte degli uomini, mentre le donne erano dentro a pregare, restavano in silenzio fuori nella piccola piazza. Consapevole del fatto che non esiste consolazione nella razionalità umana, infatti, don Vito Spagnolo, il sacerdote, ha invitato ad affidarsi alla fede, suggerendo di “guardare alla croce di Cristo per riuscire a leggervi le sofferenze dell’intera umanità, per tentare di trovare una ragione a quel dolore struggente”.  E questo invito lo ha indirizzato in modo particolare alla madre della vittima, che sempre per mano mafiosa ha perso già il marito ed un figlio. Tali ferite lei stessa ha voluto ricordarle a tutti, urlandole in chiesa e per le strade quando, dopo la messa, il corteo l’ha riaccompagnata con gli  altri familiari all’ingresso della sua casa, attraversando le vie di quella frazione immersa in un’atmosfera talmente cupa da renderla simile ad una città dei morti.

Tutto era immerso in un silenzio tetro mentre passava quella scia di ombrelli scuri, si udivano solo singhiozzi, imprecazioni, qualche voce che bisbigliava “che vergogna, che vergogna”… A conclusione della celebrazione sul pulpito è salito il primo cittadino di Petilia Policastro, Dionigi Fera, il quale, evidentemente provato, ha invitato la comunità ad uno scatto d’orgoglio. “Io – ha detto – ho conosciuto un’altra Pagliarelle, abitata da gente cordiale, allegra, unita. Una comunità di lavoratori onesti, gli stessi che oggi sono costretti ad emigrare. Questa – ha auspicato – è la Pagliarelle che dobbiamo pensare per il futuro. Facendo leva sul difficile momento che stiamo vivendo tutti dobbiamo assumerci le nostre responsabilità: le mamme, i papà, i giovani e anche gli anziani, dobbiamo riconoscere le nostre colpe, guardarci dentro e ripartire per un nuovo inizio. In questo momento di dolore dobbiamo darci tale missione, è un dovere, perché non possiamo dare anche ai nostri figli una quotidianità fatta di lutti, ma dobbiamo farli vivere nella pace. Non ho una ricetta precisa, so solo che quello che è accaduto rende necessaria la responsabilità e l’impegno costante di tutti”.

Forti sono state anche le parole della sorella della vittima, Marisa Garofalo, che ha espresso gratitudine “alla comunità di Pagliarelle, vicina e solidale in questo tragico momento, alle istituzioni, all’associazione ‘Libera’ e a don Luigi Ciotti, che erano stati vicini a mia sorella tentando di salvarla”. E in fine un grazie ha voluto rivolgerlo proprio a Lea, “che – ha detto – mi ha insegnato il valore della vita quando mi diceva che non potevo vivere solo per me stessa, ma dovevo pensare anche agli altri. Mia sorella – ha aggiunto – amava la vita, quella vita che le è stata tolta, amava soprattutto sua figlia, che era la sua vita, era tutto per lei. Oltre a ringraziarla per il suo esempio e il suo coraggio, voglio chiederle perdono, vorrei che perdonasse me e tutti quelli che come me non l’hanno capita”. A conclusione della celebrazione è arrivato il momento dello sfogo per i familiari della vittima, il silenzio cupo delle strade della frazione è stato spezzato dalle urla strazianti della mamma di Lea Garofalo e degli altri parenti, che quel corteo funebre defraudato di una salma su cui versare le sue lacrime, ha accompagnato fino a casa.  Una famiglia distrutta Casa Garofalo era un continuo via vai di gente, tutti entravano per lasciare le loro condoglianze, regalare un abbraccio o una pacca sulla spalla a quella famiglia distrutta, che aveva già le mura della sua casa piene di altre foto di morti ammazzati.

“Non ho più nulla – ha urlato disperata la madre di Lea Garofalo – io sto peggio dei figli che mi hanno ammazzato, perché devo sopravvivere alla loro assenza, loro hanno chiuso gli occhi e non vedono più niente, a me resta il dolore, questa disperazione. È come se mi avessero ammazzata tante volte: quando hanno ucciso mio marito, poi mio figlio Floriano e ora un’altra volta con Lea. Mi hanno tolto le mie perle e la sofferenza non è ancora finita, è un coltello che entra ancora nella piaga tutte le volte che penso a mia nipote, la figlia di Lea, che ora è sola, sbandata e non so nemmeno dov’è”. “Nessun perdono – ha detto ai giornalisti la sorella Marisa – non potrà esserci perdono per il modo atroce in cui è stata uccisa mia sorella”. E l’amarezza Marisa Garofalo l’ha indirizzata anche alla magistratura, che a suo dire non avrebbe protetto adeguatamente la sorella: “credo che sia stata solo usata, non dovevano permettere che la sequestrassero. Mia sorella era rimasta sola, conduceva una vita disperata anche quando era protetta, faceva una vita da cani. Lo Stato l’ha abbandonata!”.  “Mia sorella è morta – ha esclamato Marisa Garofalo – perché ha creduto nella giustizia”.  

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