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Proteggere la figlia di Lea Garofalo

Di Angela De Lorenzo il . Calabria

“Bisogna proteggere Denise Cosco, figlia di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia uccisa e sciolta nell’acido”. Lo ha detto il sottosegretario all’Interno e presidente della Commissione centrale sui programmi di protezione, Alfredo Mantovano, rispondendo, giovedì scorso, ad un’interpellanza alla Camera.   “La segreteria del Servizio centrale di protezione – ha spiegato Mantovano – ha interpellato le diverse autorità giudiziarie che a vario titolo si sono occupate di questa vicenda nel corso degli anni perché, come il sistema prevede, l’attivazione di una misura di protezione, che in questo caso sarebbe nuova, deve sempre avvenire su impulso dell’autorità giudiziaria. Inoltre – ha aggiunto – la segreteria del Servizio centrale di protezione ha fatto presente alle varie autorità giudiziarie (Dda di Catanzaro, Dda di Milano e Dda di Campobasso) l’opportunità, starei per dire la necessità, di una misura di protezione nei confronti di questa ragazza. Attendiamo – ha proseguito il sottosegretario – che qualcuna delle autorità giudiziarie interpellate assuma l’iniziativa. Ma l’attesa non è inoperosa; mentre vi è questa valutazione da parte delle Procure interessate, infatti, il prefetto di Crotone, d’intesa con le autorità di sicurezza di altri territori, ha fatto in modo di raggiungere la ragazza, che si era allontanata, anche lei volontariamente, dal suo ultimo domicilio e di garantire un’adeguata protezione nei suoi confronti. Tutto questo – ha ribadito – in assenza di iniziative da parte dell’autorità giudiziaria e in presenza di una difficoltà obiettiva derivante dal nuovo volontario allontanamento questa volta della ragazza”. 

La sollecitazione di Mantovano ha trovato, nella successiva giornata di venerdì, pronta risposta da parte della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro; il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, infatti, ha reso noto che la Dda di Catanzaro ha chiesto un programma di protezione speciale per Denise Cosco inoltrato alla Commissione centrale per i collaboratori di giustizia presieduta proprio da Mantovano; mentre alla Prefettura di Crotone è stato chiesto di avviare misure urgenti per la vigilanza della giovane. Nella sua risposta all’interpellanza, tra l’altro, il sottosegretario Mantovano ha ribadito “la mancanza di informazioni fornite dalla Dda di Catanzaro sul caso di Lea Garofalo”.

Ripercorrendo la complessa vicenda, Mantovano ha ricordato che la donna è stata ammessa al piano provvisorio di protezione il 31 luglio 2002, insieme alla figlia Denise Cosco, su proposta della Dda di Catanzaro. Il 7 marzo 2005, la Dda del capoluogo calabrese ha comunicato che, in relazione al procedimento penale in cui erano state utilizzate le dichiarazioni della Garofalo, la Procura aveva chiesto l’archiviazione poiché quelle dichiarazioni non avevano trovato riscontri. Il 16 febbraio 2006 il programma di protezione provvisoria è stato così revocato. La donna ha fatto ricorso al Tar che l’8 giugno dello stesso anno ha dato ragione alla collaboratrice. In questo periodo il programma è stato sempre in corso. Ma in seguito la donna ha rinunciato espressamente alle misure di protezione e la Commissione il 9 ottobre 2006 ha preso atto di questa rinuncia. In base alla rinuncia il Tar il successivo 23 novembre ha dichiarato improcedibile il ricorso.

A questo punto Lea Garofalo ci ha ripensato, ha fatto appello al Consiglio di Stato che ha accolto l’istanza e la Commissione il 17 dicembre 2007 ha ripristinato il piano provvisorio di protezione. La commissione ha quindi nuovamente chiesto alla Dda di Catanzaro elementi precisi sui provvedimenti adottati in base al suo contributo processuale, ma questa, ha sottolineato Mantovano, “non ha mai fornito riscontro”.  La donna è rimasta tuttavia nel programma fino al 9 aprile 2009 quando il Servizio centrale di protezione ha trasmesso la dichiarazione di rinuncia alle misure di tutela sottoscritta dalla Garofalo che è rientrata nella località di origine. In questo periodo, ha lamentato il sottosegretario, “abbiamo chiesto più volte alla Dda di Catanzaro ed alla Direzione nazionale antimafia un parere: non vi è mai stato alcun riscontro”. Con delibera del 12 novembre 2009 sono state quindi definitivamente revocate le misure di tutela. Il tutelato deve collaborare Il sistema di protezione quindi, ha sottolineato Mantovano, ha garantito a Lea Garofalo ogni tutela fin dal momento del suo ingresso nel programma, ma esso riesce “solo se vi è rispondenza da parte del soggetto tutelato. Qualsiasi tutela, anche al di fuori dei meccanismi di protezione, è impossibile se chi va protetto si sottrae alle misure di sicurezza che lo riguardano”.

A Mantovano ha replicato in aula il vicesegretario dell’Udc Mario Tassone, componente della commissione parlamentare Antimafia, affermando che “lo spietato omicidio di Lea Garofalo dimostra che qualcosa non funziona nella normativa sul servizio di protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia. Il sottosegretario Mantovano – ha aggiunto Tassone – sostiene che in questa vicenda tutto sia stato perfetto: forse sul piano delle carte bollate, ma la realtà è che siamo di fronte a un delitto efferato e che quindi più di qualcosa è andato storto. Qui non si tratta di pratiche burocratiche, ma di vicende che riguardano il dramma che oggi vive la Calabria: l’uccisione di Lea Garofalo non ha dato certo un messaggio ‘incoraggiante’ per chi vuole testimoniare e collaborare per scardinare le organizzazioni criminali.

E non basta mandare 80 giovani militari a Reggio Calabria, quando poi si indeboliscono altri fondamentali strumenti di contrasto alla criminalità organizzata”. “Da parte nostra – ha proseguito Tassone – non c’é una posizione contro il governo né si vuole scaricare su di esso le responsabilità dell’accaduto. Poniamo semplicemente la questione in termini oggettivi: c’é la necessità di rivedere la norma sulle protezioni per evitare altri casi come quello della Garofalo”.

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