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Uccisa e sciolta nell’acido

Da Il Crotonese il . Calabria, Lombardia

A volerne la morte è stato il compagno, lo stesso uomo dal quale aveva avuto una figlia che da oggi, ormai giovane donna, dovrà convivere per sempre con l’orrore. Lea Garofalo, la 35enne di Petilia Policastro svanita nel nulla il 24 novembre dello scorso anno, doveva pagare con la vita un peccato imperdonabile: quello di aver rotto il muro d’omertà e di aver rivelato alla giustizia moventi e autori di alcuni efferati delitti commessi dagli uomini delle cosche petiline. Divenuta collaboratrice di giustizia nel luglio del 2002, Lea Garofalo aveva fatto anche i nomi del suo ex convivente e dei fratelli, che da allora hanno sempre pensato di fargliela pagare. Un intento irrealizzabile finché la donna ha vissuto protetta insieme alla figlia in una località segreta.

Quando però ha rinunciato a quella protezione, tentando addirittura un riavvicinamento al compagno, ha firmato la sua condanna a morte. Dopo essere sfuggita ad un tentativo di sequestro, avvenuto nel maggio dello scorso anno a Campobasso, Lea Garofalo è stata attirata in una trappola: giunta in treno a Milano insieme alla figlia, la sera del 24 novembre 2009 è stata prelevata, torturata per farle dire cosa avesse raccontato agli inquirenti, uccisa con un colpo di pistola alla testa e infine sciolta nell’acido, affinché rimanesse per sempre il dubbio che la donna si fosse allontanata volontariamente.

Un delitto orribile come lo ha definito il giudice delle indagini preliminari di Milano Giuseppe Gennari che, a conclusione delle indagini coordinate dalle direzioni distrettuali antimafia di Milano e Campobasso, ha ordinato l’arresto di sei persone. Si tratta di Carlo Cosco, 40enne di Petilia Policastro, l’ex convivente della collaboratrice uccisa; dei fratelli Giuseppe Cosco detto Smith, di 46 anni, e Vito Cosco detto Sergio, di 41 anni; di Carmine Venturino, di 32 anni, tutti di Petilia Policastro, e di Massimo Sabatino, 37 anni, di Pagani.

I carabinieri, che hanno svolto l’indagine sulla scomparsa della donna, hanno notificato i provvedimenti restrittivi a Carlo Cosco e a Massimo Sabatino nel carcere in cui sono ristretti dal febbraio scorso proprio con l’accusa di aver tentato di sequestrare la Garofalo nella sua abitazione di Campobasso dove in quel periodo era tornata a vivere con la figlia Denise. In particolare – secondo la ricostruzione degli inquirenti milanesi – Carlo Cosco avrebbe organizzato la trappola per sequestrare e uccidere la Garofalo, chiedendo alla compagna, che si era recata a Firenze per un processo, di raggiungerlo a Milano  per farle salutare la figlia; Massimo Sabatino e Carmine Venturino avrebbero sequestrato la vittima consegnandola poi a Vito e Giuseppe Cosco che l’avrebbero interrogata e poi uccisa con un colpo di pistola. Il corpo della povera vittima, quindi, sarebbe stato disciolto in una vasca d’acido in un terreno nelle campagne milanesi dove gli assassini erano giunti a bordo di un furgone.

Per comprendere fino in fondo il contesto nel quale è maturato un delitto tanto efferato che ha pochi precedenti nella storia della ’ndrangheta calabrese, è necessario ripercorrere la tormentata vicenda personale della Garofalo. Sorella di Floriano Garofalo, il 40enne a capo della cosca di Pagliarelle ucciso in un agguato l’8 giugno del 2005, la donna era diventata collaboratrice di giustizia nel luglio del 2002 e aveva iniziato a parlare con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro rendendo dichiarazioni importanti; era stata quindi ammessa, insieme alla figlia avuta da Carlo Cosco, all’epoca ancora minorenne, ad un piano provvisorio di protezione e trasferita a Campobasso. Programma che successivamente le era stato revocato il 16 febbraio 2006 perché le sue dichiarazioni non erano state ritenute utili alle indagini. Dopo un suo ricorso respinto dal Tar, il Consiglio di Stato, però, aveva disposto il reintegro nel programma di protezione, ma lei aveva rinunciato ed era tornata a Petilia Policastro dove nella sua abitazione era stato attivato un servizio di vigilanza radiocontrollata.

Finché, nell’aprile dello scorso anno, aveva deciso di tornare a Campobasso ritenendola una città tranquilla e aveva ripreso i contatti con il convivente Carlo Cosco. Ma i due a quanto pare litigavano spesso. Proprio a quel periodo, nel maggio 2009, risale il tentativo di sequestrarla per il quale Cosco è stato poi arrestato insieme a Massimo Sabatino.

Per il giudice Gennari, dunque, “le ragioni poste alla base dell’eliminazione della donna, risiedono nel contenuto delle dichiarazioni fatte ai magistrati, ma mai confluite in alcun processo, con particolare riferimento all’omicidio di Comberiati Antonio, elemento di spicco della criminalità calabrese a Milano durante gli anni ’90, ucciso per mano ignota il 17 maggio 1995. Le dichiarazioni fatte all’epoca dalla Garofalo individuavano, infatti, nei responsabili dell’omicidio l’ex convivente della donna, Cosco Carlo, ed il fratello di questi, Giuseppe, detto Smith, pur non fornendo esaustivi elementi di colpevolezza, in ordine al loro coinvolgimento diretto nella dinamica omicidiaria”.

Ai magistrati della Dda di Catanzaro, in particolare, la donna aveva parlato dell’attività di spaccio di stupefacenti condotta dai fratelli Carlo e Giuseppe Cosco, ‘concessa’ dal reggente dell’epoca, Tommaso Ceraudo, “per il fatto che Carlo Cosco fosse il cognato di Floriano Garofalo, fratello di Lea e capo indiscusso della frazione Pagliarelle di Petilia Policastro”. Dopo il duplice omicidio di Tommaso Ceraudo e Silvano Toscano, il 30 novembre 1994, il traffico di stupefacenti della zona ‘Baiamonti’ di Milano era stato preso in mano da Antonio Comberiati ma, proprio per questo, ben presto erano insorti contrasti con i fratelli Cosco, sfociati poi nell’omicidio dello stesso Comberiati per il quale la collaboratrice attribuiva l’esecuzione a Giuseppe Cosco, mentre l’ex convivente avrebbe fatto da palo.

“I fratelli Cosco – ricostruiscono gli inquirenti – benché consapevoli del fatto che la donna fosse a conoscenza delle loro responsabilità, non erano mai venuti a conoscenza del contenuto delle dichiarazioni della Garofalo, che nel frattempo aveva interrotto la relazione sentimentale con Cosco Carlo. Dal giorno della decisione di uscire volontariamente dal programma di protezione, nell’aprile del 2009, in seno alla famiglia Cosco – scrive il gip Gennari – è quindi maturata la consapevolezza di avere finalmente l’opportunità di poter estorcere alla Garofalo il contenuto delle dichiarazioni rese all’epoca e, successivamente, di potere eliminare fisicamente la donna”.

 Proprio in quel momento, infatti, si registra “un progressivo riavvicinamento di Cosco Carlo all’ex convivente” motivata con il pretesto di affrontare insieme il futuro della figlia, “che però aveva come unico scopo quello di “cogliere il momento opportuno per mettere in pratica il diabolico piano, fallito una prima volta a Campobasso il 5 maggio 2009 e portato a termine, con lucida premeditazione, a Milano il 24 novembre successivo, approfittando di un grave errore di valutazione della donna, la quale, dopo molti anni e per la prima volta era tornata in città, assecondando il desiderio della figlia Cosco Denise, di rincontrare il padre”.

Per gli inquirenti, dunque, “i Cosco, ovviamente Carlo per primo, a fronte della scelta di Lea Garofalo di troncare la relazione e intraprendere la strada della collaborazione, non possono non avvertire due esigenze: vendicarsi dell’affronto della Garofalo e, soprattutto, apprendere che cosa ella avesse rivelato agli inquirenti circa traffici di droga e omicidi. A prescindere dalla utilità giudiziaria o meno delle chiamate di correità della Garofalo, i Cosco sanno benissimo che quella donna rappresenta un pericolo. E conoscere quello che Lea aveva rivelato è un passaggio indispensabile per valutare
la entità di questo pericolo e il modo per sottrarvisi. Ecco perché è necessario prima sequestrare Lea Garofalo, come si era tentato di fare a Campobasso, e poi inevitabilmente eliminarla. Ecco perché non è sufficiente semplicemente uccidere Lea Garofalo, cosa che sarebbe molto più facile e immediata”.

A parlare del progetto di eliminare Lea Garofalo e di scoglierne il cadavere nell’acido, peraltro, è anche il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese, che tra il 2001 e il 2003 era detenuto nello stesso carcere con Carlo Cosco. “Durante il periodo in cui dividevo la cella con il Cosco Carlo – ha raccontato Cortese – questi si mostrava particolarmente irritato dall’atteggiamento della moglie Garofalo Lea. Alla stessa addebitava il fatto di averlo, in buona sostanza, abbandonato nel corso della sua detenzione, non andandolo più a trovare, né tanto meno  mandandogli generi di conforto o somme di denaro”.

Ci sono poi le dichiarazioni di Salvatore Sorrentino che racconta di aver appreso in carcere notizie sulla scomparsa di Lea Garofalo direttamente da Massimo Sabatino, ritenuto uno dei responsabili del sequestro e del conseguente omicidio della donna. A Sorrentino l’uomo avrebbe raccontato di aver ricevuto 25 mila euro dai fratelli Cosco per andare a Campobasso e sequestrare una donna che doveva loro del denaro. Il viaggio sarebbe stato effettuato insieme a Vito Cosco detto “Sergio”, a bordo di un furgone sul quale erano stati caricati 50 chili di acido e avrebbero dovuto partecipare anche Carmine Venturino e Rosario Curcio, ritiratisi all’ultimo momento. Fallito quel primo tentativo, la cronologia degli eventi porta al 24 novembre dello scorso anno, quando Lea e la figlia Denise arrivano a Milano, su esplicito invito di Carlo Cosco.

“Quello che si verifica a Milano, in una tranquilla ed elegante zona centrale – ricostruisce il gip Gennari – è un caso di lupara bianca che ci riporta a situazioni e contesti sovente (ed erroneamente) creduti ben lontani dalla realtà cittadina. Sotto gli occhi di ignari passanti, si scorge una donna minuta, ripresa negli ultimi istanti della sua vita dalle telecamere di sicurezza poste ai margini della strada, salire fiduciosa sul veicolo dell’ex convivente, padre di sua figlia. Per circa due ore, prima di presentarsi nuovamente a prendere la figlia Denise, Carlo Cosco rimane da solo con Lea Garofalo”. Alle 20 Denise cerca invano di contattare la madre, poi invia un sms ma non è possibile agganciare il cellulare della vittima.

“Nessuno – scrive il giudice – sa quando esattamente Lea Garofalo sia stata uccisa. Probabilmente la sera stessa, a notte inoltrata, davanti al magazzino di Crivaro”. Quest’ultimo è il 45enne di Cutro arrestato nel marzo scorso perché sospettato di aver messo a disposizione di Cosco un terreno alla periferia di Milano dove poi sarebbe avvenuto il delitto. In quel luogo la donna sarebbe arrivata a bordo di un furgone all’interno del quale c’erano ancora i 50 chili di acido già procurati in occasione della missione molisana.

In proposito è ancora Sorrentino a rivelare quanto gli avrebbe confidato Sabatino: “in questo luogo vi erano Cosco Sergio e Cosco Smith, entrambi fratelli di Carlo, i quali hanno preso in consegna il furgone, su cui si trovava la Garofalo, legata e imbavagliata. Successivamente da Carlo Cosco ha saputo che la Garofalo è stata torturata, in quanto da lei volevano sapere che cosa aveva dichiarato in ordine all’omicidio di un fratello di qualcuno legato a loro e che poi era stata sciolta nell’acido, così come era stato previsto nel piano concordato insieme”.

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