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Messico, sete di giustizia

Di Stefano Fantino il . Internazionale

Trovare il bandolo nella matassa per comprendere cosa stia succedendo in Messico è un’impresa a dir poco ardua: decine di migliaia di morti negli ultimi quattro anni nella cosiddetta guerra al narcotraffico, violazioni dei diritti umani da parte dei militari costantemente denunciate alle associazioni locali, corruzione delle forze dell’ordine non fanno che rendere ancora più torbide le acque. L’unica cosa che appare chiara è che la sfida militare lanciata dal Governo federale ai cartelli del narcotraffico non può che essere una delle tante riforme che il Messico deve adottare per recidere alla base le cause di un terribile conflitto, e, più a fondo, dell’impunità che regna sovrana nella federazione.

Che il problema, aldilà delle lotte senza quartiere e dei morti che ogni giorno finiscono sui giornali e nelle tv, sia molto più ampio e abbracci l’intero sistema federale è lampante, a riprova che la guerra ai narcos deve tenere sempre presente una riforma di base condivisa e democratica che impedisca la creazione di uno stato di polizia dove impunità e abuso vadano a braccetto. Una convinzione ferma anche nelle parole di Cynthia Rodriguez, giornalista messicana della rivista ”Proceso”, attualmente residente in Italia, che ci aiuta a raccontare il suo paese: «secondo me sono dei segni importanti – dice interrogata sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dai militarici dicono quanto è grande l’impunità in Messico; chiunque fa cosa vuole e non succede nulla, non esiste un’autorità capace di reagire subito».

Un paese militarizzato che non sa però essere lucido e deciso quando servono risposte per i cittadini, che aldilà della cattura degli zar della droga hanno bisogno di una giustizia efficace e credibile: «In Messico è questo il problema-continua la Rodriguez – non c’è una giustizia, la gente continua ad ammazzare , sequestrare senza che succeda nulla, molto spesso perché quelli che dovrebbero fare le cose sono a loro volta coinvolti». Una situazione molto pressante che diviene tale anche per lo stesso esercito nel momento in cui la mancanza di fiducia reciproca rende la scelta di dare una risposta ai narcos solo per via militare un’aggravante capace di caricare di tensione l’ambiente circostante.

La Rodriguez, da anni esperta del tema dei narcos, sottolinea la necessaria attenzione da dare anche ad altri aspetti di contrasto, alle politiche sociali e culturali che devono accompagnare la lotta che il governo federale di Calderon ha lanciato negli ultimi anni : «pensare a centri di intelligence avanzati e chiudere al contempo servizi scolastici e licei nel paese significa lasciare soli migliaia di giovani». L’ennesima contraddizione in un paese dove anche fare informazione giornalistica significa rischiare la vita o scontrarsi con le volontà se non addirittura gli uomini dei narcos, comodamente insediati in televisioni e giornali e capaci di manipolarne i contenuti o di minacciare i giornalisti che non vogliono piegarsi.

Non solo narcomafie, affari, denaro, morti ammazzati per le strade, ma un vero substrato che impedisce la vita democratica e inasprisce le lotte interne: «A causa di questa impunità nessuno si può fidare- conclude la Rodriguez -se vai dalla polizia non sai in che mani ti metti». Così raccontare il Messico non diventa solo un computo, cruento, di cadaveri, ma la volontà di mettere in luce alcune contraddizioni alla base, che si devono risolvere per permettere passi importanti per la pacificazione democratica del paese.

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