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La tragica morte di Lea Garofalo

Di Chiara Spagnolo il . Calabria, Lombardia

Le avevano giurato vendetta. E alla
fine la vendetta è arrivata. Le cosche crotonesi hanno ucciso e poi
sciolto nell’acido la testimone di giustizia calabrese Lea
Garofalo, con la complicità dello Stato che non ha saputo, o voluto,
proteggerla. Da mesi si sospettava che la scomparsa della donna non
fosse una fuga volontaria ma l’ennesimo caso di lupara bianca. Nei
giorni scorsi i timori dei familiari, da mesi convinti della sua
morte, sono diventati una certezza, scritta nero su bianco
sull’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip di
Milano Giuseppe Gennari, su richiesta del procuratore aggiunto
Alberto Nobili e dei pm Letizia Mannella e Marcello Tatangelo.

Proprio a Milano la Garofalo era stata
vista per l’ultima volta tra il 24 e il 25 novembre dello scorso
anno, quando aveva accompagnato la figlia a un incontro con l’ex
compagno Carlo Cosco, esponente di spicco di una ‘ndrina del
Marchesato crotonese, che di Lea era stato l’amore e la rovina, e
che oggi viene considerato l’ideatore dell’omicidio. Insieme a
lui sono stati arrestati i fratelli Vito e Giuseppe, l’amico fidato
Massimiliano Sabatino e altre due persone che li avrebbero aiutati a
distruggere il cadavere. Di Lea, infatti, non è rimasto nulla.
Neppure un corpo da seppellire per poter dare alla famiglia una tomba
su cui piangere. L’onta di cui si sarebbe macchiata, l’aver
parlato con la magistratura, è stata troppo grande per poter essere
lavata con la sola morte. Lea doveva essere cancellata, non solo
dalla faccia della terra, ma anche dal ricordo di chi l’ha
conosciuta. Fine terribile di una donna che ha voluto ribellarsi alle
leggi eterne della ‘ndrangheta, esempio drammatico per tutti coloro
che potrebbero accarezzare l’idea di agire nello stesso modo,
cercando di tirarsi fuori dalla melma della mafia. 

Dal 2006 senza protezione

Tentativo inutile, evidentemente. Reso
ancor più difficile dalla debolezza di uno Stato che chiede ai
testimoni di esporsi ma troppo spesso, dopo la collaborazione, li
abbandona al proprio destino. Così è stato per Lea: usata e poi
lasciata sola. Fuoriuscita nel 2006 dal programma di protezione, dopo
aver reso dichiarazioni importanti alla Dda di Catanzaro, perché le
sue parole non avevano avuto «autonomo sbocco processuale». Ovvero
non erano state sufficienti a garantirle la prosecuzione del
programma di protezione. Insufficienti per la giustizia ma non per i
suoi nemici, dal momento che quelle parole avevano attirato su di lei
l’odio delle cosche, dandola in pasto ai suoi assassini. Di loro
Lea Garofalo sapeva tutto. Perché era nata e cresciuta nel segno
della ‘ndrangheta. Il padre, Antonio, era un uomo d’onore, ucciso
nella notte di Capodanno del 1975, quando la figlia aveva appena otto
mesi. Il 1 gennaio 1976 mentre la moglie piangeva sul suo cadavere,
la famiglia Garofalo iniziava la guerra contro i Mirabelli: la faida
di Petilia Policastro, nella quale perse la vita anche il fratello di
Lea, Floriano, ucciso da un gruppo di fuoco del quale faceva parte
anche Carlo Cosco.

Quest’uomo per Lea fu amore e morte.
Padre di sua figlia, compagno, poi nemico, infine assassino. Quando
la donna scoprì il suo passato decise di lasciarlo e di iniziare la
sua collaborazione con la giustizia: rese dichiarazioni importanti
nell’ambito di varie inchieste ed entrò con la figlia in un
programma di protezione. Lasciò la Calabria, continuò a parlare, si
illuse di poter continuare a vivere, ma la ‘ndrangheta aveva
scritto la sua condanna a morte ed aspettava solo il momento
opportuno per eseguirla. Nel 2006 lo Stato fece l’errore che le
costò la vita. La sua richiesta di essere ammessa a un programma di
protezione definitivo fu bocciata dalla Commissione centrale e, da
quel momento, ogni giorno per lei fu una conquista. Tre anni
trascorsero così: Carlo Cosco e i suoi uomini a braccarla, Lea a
nascondersi. Nella primavera del 2009 la volontà della ‘ndrina di
Petilia fu a un passo dal realizzarsi. La testimone viveva a
Campobasso e lì Carlo Cosco la raggiunse insieme a Sabatino, e
riuscì a introdursi nella sua abitazione fingendosi un tecnico della
lavatrice. La donna però li aspettava, capì chi erano, riuscì a
evitare il sequestro, denunciò il tentativo alle forze dell’ordine.
Nessuno però, a Roma, si preoccupò di lei. Sola era e sola è
rimasta. In una battaglia che sapeva di avere perso in partenza. Non
è un caso che la madre, all’indomani della sua scomparsa, avvenuta
il 25 novembre 2009, denunciò subito la morte della figlia. Per lei,
che aveva visto già marito e figlio morire sotto il fuoco della
‘ndrangheta, non c’era alcun dubbio: la vendetta su Lea si era
consumata. 

Una tragica fine

L’ultima a vederla viva, in quel
giorno d’autunno, fu la figlia, che Lea aveva accompagnato a
Milano, a un appuntamento col padre Carlo e che l’aspettò invano
alla stazione centrale. Alla stazione milanese, infatti, la donna non
tornò mai. Secondo gli inquirenti, il gruppo formato dai fratelli di
Carlo e da Sabatini l’avrebbe caricata con la forza su un furgone,
portata in un magazzino della periferia milanese e sottoposta a un
serrato interrogatorio per scoprire quali particolari della vita e
delle attività della cosca avesse rivelato alla magistratura. Poi
Lea sarebbe stata uccisa con un solo colpo di pistola, infine il suo
cadavere sciolto nell’acido, come nelle “migliori” tradizioni
della mafia. Il messaggio da mandare al mondo era chiaro: chi parla
muore e alla famiglia non resta neppure un cadavere su cui piangere.
Allo Stato, forse, resta invece il rimorso di non aver capito i
pericoli che Lea stava correndo e non aver fatto di più per
aiutarla. La burocrazia, alla fine, ha prevalso sull’esatta
valutazione della situazione in cui la collaborazione della Garofalo
è maturata e del contesto in cui le ‘ndrine crotonesi operano in
Calabria e in altre regioni. Ancora una volta la partita a scacchi
tra lo Stato e la ‘ndrangheta è finita nel peggiore dei modi: la
criminalità ha vinto, lo Stato ha perso. Sconfitto anche da se
stesso e dalla sua superficialità. Incapace di proteggere una donna
innocente e la sua famiglia e incapace, soprattutto, di dimostrare
che stare dalla parte della giustizia conviene. La storia di Lea,
purtroppo, dimostra l’esatto contrario. E proprio in questo le
cosche che l’hanno uccisa hanno ottenuto la vittoria più grande.

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