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La storia di Roberta Lanzino e la sua eredità di speranza

Di Anna Foti il . Calabria

Una fatalità sfociata in tragedia quella del pomeriggio del 26 luglio del 1988 quando mamma Matilde suo marito Franco decisero, con la figlia Roberta, che lei avrebbe dovuto avviarsi verso la casa al mare di Miccisi di San Lucido con il motorino da sola. I genitori avrebbero chiuso la casa per poi raggiungerla. Ma non l’avrebbero mai raggiunta. Avevano tardato in garage solo una manciata di minuti. Fatali. Roberta già in strada si era persa e, secondo il racconto di testimoni oculari, chiedendo informazioni ad un bivio di quella strada provinciale del tirreno cosentino, avrebbe imboccato una via alternativa. Dopo quel bivio di Torremezzo, l’aggressione, la violenza, la morte e un mistero che lentamente nonostante siano trascorsi più di venti anni non ha ancora svelato tutte le sue pieghe.

Pieghe tra le quali si sono insinuate menzogne e tentativi di affossare un gesto brutale, uno stupro, un atto vile di violenza contro le donne al solo scopo di mantenere un omertoso e vergognoso silenzio e coprire infamanti responsabilità. Un’escalation di brutalità di cui sono venuti a conoscenza anche i boss del luogo, notoriamente dediti al “controllo del territorio” e che ancora oggi è al vaglio degli inquirenti ed è oggetto di un processo di primo grado incardinato dinnanzi alla Corte di Assise di Cosenza dove parti civili sono i genitori di Roberta e il padre di Luigi Carbone, scomparso nel 1989 e complice dell’omicidio, Carmine.

Tra le montagne di Falconara Albanese è stata spezzata la vita della giovane Roberta Lanzino. Sono ormai diventate montagne maledette. La studentessa di Rende non è mai arrivata alla sua casa al mare quel giorno di 22 anni fa. Era il 26 luglio del 1988 e lei aveva diciannove anni quando sul suo motorino percorreva un tratto di tirreno cosentino verso Miccisi di San Lucido, prima di imbattersi nella violenza e nella brutalità di chi, dopo anni di processi, colpi di scena e smentite, forse accenna ad avere un volto per la giustizia e per la famiglia della giovane.    Comincia tutto con un fitto mistero. Il ritrovamento, la mattina successiva, di quel motorino riverso nella scarpata e, poco distante, di quel corpo martoriato e senza vita di Roberta segnò l’inizio di un indagine che oggi lega insieme sei delitti. Il cerchio comincia a stringersi da quando, nel dicembre 2007, viene trovata un carcassa di auto. Si tratta di una Fiat 131 di colore marrone chiaro di cui i testimoni oculari dell’omicidio Lanzino avevano riferito, parlando di Roberta fermatasi per strada a chiedere informazioni prima di essere seguita e aggredita, e che riesce a rimanere nascosta per quasi vent’anni in un burrone che il tempo ha reso inaccessibile e pieno di vegetazione.   Dall’impossibilità  di risalire al Dna di chi l’avrebbe aggredita e violentata, alla strategia messa in atto subito dopo per depistare le indagini.

Dal tentativo di incolpare figli di noti professionisti della città bruzia all’assoluzione in Cassazione dei tre pastori imputati, i fratelli Luigi e Rosario Frangella e il cugino Giuseppe Frangella. Nonostante tale sentenza, le indagini condotte fecero luce sugli accadimenti di quel pomeriggio, sul percorso di Roberta prima dell’aggressione. Restano dei dubbi circa la compiutezza delle indagini che non poterono contare sugli elementi determinanti quali l’individuazione del DNA, l’utilizzabilità degli elementi fisiologici non più attendibili dopo diverse ore di esposizione, e l’adeguata rilevazione delle impronte digitali sul motorino. Inoltre vi registrava una paura incomprensibile che serpeggiava intorno a questa vicenda, subito dopo il suo accadimento. I delitti che seguirono, e che sembrerebbero essere ad esso legati, potrebbero spiegare il perché.

In forza delle rivelazioni nel 2000 dei pentiti della Ndrangheta Umile Arturi e Franco Pino, informato di alcuni particolari dai boss di San Lucido – Romeo e Marcello Calvano di cui il primo non ha confermato le circostanze in oggetto ed il secondo è stato ucciso nell’agosto del 1999 –  si riaprono le indagini presso la Procura di Paola dove il pm Domenico Fiordalisi, pubblica accusa nell’odierno processo, sarebbe tornato a cercare la verità sulla morte di Roberta. Nessuna responsabilità di giovani della Cosenza bene, come le operazioni di depistaggio avrebbero voluto lasciar intendere, ma un delitto occasionale senza indagati eccellenti e maturato in un contesto di violenza e di terrore oppresso da un cappa mafiosa.

La svolta arriva anche con la deposizione della confidente di Rosaria Genovese che fuga ogni dubbio circa i significativi collegamenti che legherebbero insieme la morte della giovane Roberta, la scomparsa dell’allevatore Luigi Carbone avvenuta nel novembre del 1989, la morte per strangolamento di Rosaria Genovese nell’aprile del 1990, la morte del maresciallo della Polizia Penitenziaria Alfredo Sansone e dei pastori Libero Sansone e Pietro Calabria, i cui corpi trucidati sarebbero stati ritrovati a Ferrera di Paola nel marzo del 1989. Sembra che tutti fossero a conoscenza di dettagli dell’omicidio di Roberta e che per questo siano stati “messi a tacere” subito dopo quel delitto. Si tratterebbe, dunque, di un intreccio tragico di violenza e barbarie, forse interessi economici legati a proprietà terriere e pascoli. Un intreccio certamente degenerato in un progetto criminale di eliminazione di possibili testimoni scomodi. Lo scorso gennaio è stato disposto il rinvio a giudizio per Franco Sansone, esecutore materiale del delitto Lanzino, già detenuto per l’omicidio della casalinga Rosaria Genovese e del complice nel delitto Luigi Carbone, scomparso nel 1989.  Intanto lo stesso Franco Sansone, imprenditore di Cerisano e proprietario del fondo rustico presso cui lo scorso anno fu invano effettuato un sopralluogo per la ricerca del corpo di Luigi Carbone, è imputato per l’omicidio dello stesso Carbone insieme ad Alfredo e Remo Sansone, rispettivamente suo fratello e suo padre. Due i testimoni fondamentali per questa riapertura di inchiesta: il fratello di Rosaria Genovese, Gennaro, e il padre di Luigi Carbone, Carmine.

Oggi Roberta sarebbe stata zia di cinque nipoti, i figli di sua sorella Marilena e dei suoi fratelli Giuseppe e Luca invece non rimane che il ricordo che la sua famiglia e chi l’ha conosciuta intendono onorare con azioni concrete e diano speranza e aiuto a chi subisce violenza. Da qui nasce il progetto realizzato nel 1989 della fondazione Lanzino, attiva nelle scuole con attività di sensibilizzazione sui temi dei diritti e della prevenzione della violenza di genere e l’idea, subito concretizzata nell’autunno successivo a quell’estate maledetta, di istituire il centro “Roberta Lanzino” con casa rifugio dal 2000 per le vittime di maltrattamenti e violenza. Proprio la casa rifugio, oggi a distanza di 10 anni ha chiuso battenti per assenza di quei fondi che la Legge n. 20 del 21 agosto 2007 a sostegno dei centri antiviolenza prevedrebbe con l’emissione di un bando annuale che quest’ano non è stato formulato dalla Regione. Anche il Centro antiviolenza rischia lo stesso destino.

In questo senso, pieno di buoni propositi è stato l’incontro promosso da Donne calabresi in rete e svoltosi presso la casa delle Culture di Cosenza sabato scorso per porre in essere azioni a difesa della casa rifugio, unitamente al centro unica realtà inserita nel circuito nazionale dei centri antiviolenza in Calabria. Donne, attiviste, cittadine si sono riunite per parlare di pari opportunità e per difendere un presidio di tutela delle donne sempre più vittime di violenza e di promozione di una cultura di parità tra i generi. Le Associazioni e i gruppi – Fabbrica delle idee (Cosenza), Women’s Studies Unical, Unione Donne in Italia di Reggio Calabria, Ass. Emily (Cosenza), Centro Italiano Femminile di Reggio Calabria, Donne DaSud di Roma, Associazione Jineca-Percorsi Femminili di Reggio Ca
labria, Ass. Zahir, Coop. Interzona, Movimento Antirazzista Catanzaro, Io Donna, Gruppo PD Calabria 25 aprile, Io Resto in Calabria, Centro Margherita RC – e le donne intervenute e presenti hanno annunciato un’azione sempre più incisiva se risposte istituzionali concrete non dovessero arrivare.    Centinaia di donne, prevalentemente vittime tra le mura domestiche e di età compresa tra i 28 e i 47 anni, hanno contattato in questi anni il centro antiviolenza “Roberta Lanzino” per ascolto telefonico, accoglienza, consulenza legale, consulenza psicologica. Un’opportunità per liberarsi dall’oppressione. Un’opportunità che affonda le proprie radici in quel drammatico pomeriggio del luglio 1988. La vicenda giudiziaria forse potrà condurre ad una verità, ma Roberta è stata anche vittima di quella sfida che la Calabria, e non solo essa, deve smettere di perdere. La sfida culturale per la parità dei diritti, la libertà di coscienza, il riscatto dall’omertà mafiosa.

Una sfida che oggi dovrà fare a meno del centro intitolato a Roberta Lanzino.    

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