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Processo Hiram, Pm chiede condanna per cinque imputati

Di Norma Ferrara il . Sicilia

Quasi quaranta anni di carcere sono stati chiesti dai pm Fernando Asaro e Paolo Guido per gli imputati del processo Hiram, faccendieri che per conto di un intreccio di poteri massonici e mafiosi tentavano di aggiustare processi in Cassazione, avvantaggiando i boss di Cosa nostra. La catena di arresti che ha portato in aula gli imputati era scattata il 17 giugno del 2008 su mandato della Dda di Palermo dopo 4 lunghi anni di indagini condotte fra Trapani e Agrigento. Oggi per l’imprenditore Michele Accomando (arrestato nel 2007 per mafia e condannato a 9 anni e tre mesi di carcere)  i pm hanno richiesto alla terza sezione del Tribunale la condanna a 6 anni, per l’altro imprenditore Nicolò Sorrentino 7 anni, per il ginecologo Renato De Gregorio 4 anni. La pena più alta è stata invocata per Calogero Licata, funzionario del Ministero delle Finanze in servizio ad Agrigento, per cui sono stati richiesti 12 anni, mentre per l’impiegato della Cassazione, Guido Peparaio, i pm hanno escluso l’aggravante mafiosa e hanno chiesto 7 anni e 6 mesi. Gli imputati sono accusati a vario titolo di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo ai sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d’ufficio. Un ruolo centrale nella vicenda lo ha ricoperto il faccendiere umbro Rodolfo Grancini, già condannato in abbreviato a sei anni e sei mesi, un avvocato con solide amicizie in ambienti politici ed ecclesiastici romani  e presidente di uno dei Circoli del Buon Governo di Marcello Dell’Utri.  Il suo ruolo era quello di seguire le sorti di una serie di processi in Cassazione, lavorando su alcuni contatti interni alla seconda sezione della Corte per ottenere informazioni riservate. A giovarsene, secondo le accuse, alcuni personaggi ritenuti a vario titolo vicini a Cosa Nostra come il capo storico del mandamento di Mazara del Vallo, Mariano Agate.    

L’inchiesta denominata Hiram (in gergo esoterico, una colonna portante della Massoneria) ha portato alla luce dunque un sodalizio criminale tra mafia e massoneria volto ad “insabbiare”, rallentandoli o aggiustandoli, processi di mafia.  Dall’ indagine   emerge un disegno criminale che si muove fra la Sicilia, lambisce l’Umbria e avvantaggia il boss latitante numero uno di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. I comandi che partivano dai mandamenti di Cosa nostra siciliana, infatti, utilizzavano due intermediari umbri come terminale ultimo dentro i palazzi di Giustizia, erano rivolti soprattutto alla cosca di Mazara gestita dagli Agate ma tutto si svolgeva sotto l’egida del boss di Castelvetrano. Uno strano giro di “commissioni” chieste per sollevare mafiosi dal rischio della galera vede coinvolti personaggi insospettabili. Fra questi, stando alle indagini, anche un sacerdote gesuita, padre Romanin, finito ora a fare la sua opera pastorale in Australia e che scriveva lettere di implorazione ai giudici perché avessero riguardo per un paio di giovani accusati di mafia. Secondo l’indagine il gesuita avrebbe ricevuto massoni e politici, con cui aveva intensi rapporti d’affari, nella sacrestia della chiesa romana di Sant’Ignazio di Loyola. Tra i personaggi con cui Romanin avrebbe avuto rapporti, ci sarebbe stato anche il senatore Marcello Dell’Utri che, interrogato si è avvalso della facoltà di non rispondere. 

 A raccontare parte di questo sistema sui banchi delle aule giudiziarie di Palermo, proprio il faccendiere umbro, Rodolfo Grancini che come scrivono i magistrati nelle motivazioni della condanna a sei anni e sei mesi nel maggio scorso «aiutava i mafiosi a far rinviare i processi in Cassazione per determinare scarcerazioni e la prescrizione dei reati» […] Aveva creato  un canale riservato che consentiva, in modo stabile, non solo di apprendere notizie in ordine allo stato dei procedimenti, ma anche proficuamente di attivarsi per procrastinarne la definizione e dunque gli effetti delle decisioni rese dalla Cassazione, non poteva che determinare un indubbio e stabile vantaggio per l’associazione mafiosa».

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