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Una rete contro la violenza

Di Stefano Fantino il . Internazionale, Interviste e persone

Marcela Turati è una giornalista messicana che ha fondato la rete “Periodistas de a pie”, per rilanciare il giornalismo su temi sociali in un paese stretto dalla morsa dei narcos, capaci di gestire a loro piacimento l’informazione. Ne abbiamo parlato con lei prima di un incontro alla Federazione Nazionale della Stampa a Roma. 

Come nasce l’idea di questa rete di giornalisti? 

Nel 2006 un gruppo di giornaliste donne che si occupavano di temi sociali, come salute, educazione, politiche sociali, povertà e diritti umani, si è messo a lavorare insieme, consapevole del fatto che la copertura di queste tematiche era esclusa dai giornali, concentrati su temi politici e giudiziari. Dovevamo solo prepararci per iniziare a scrivere di questi temi. Dal 2007, quando la violenza narcos cominciò a esplodere, decidemmo di concentrarsi su ciò che vi era al di là della cronaca nera: trattamento delle vittime, storie dei ragazzini in quei contesti, il tema della droga, tutte cose che non fossero la mera conta delle morti. E parallelamente ora la nostra rete sta lavorando sul tema, molto importante, della libertà di espressione, perché in molte regioni i giornalisti non possono pubblicare notizie e sono minacciati: non si sa spesso come coprire notizie in zone pericolose.

In quali zone ad esempio non si riesce a scrivere? 

Il Messico è diviso in zone dalla differente pericolosità. Ci sono parti a nord del paese dove non si può pubblicare niente. E non parlo di Tijuana o Ciudad Juarez, ma ad esempio dello stato di Tamaulipas non si può scrivere al punto che molto spesso sono gli stessi cittadini, quando accade qualcosa a scendere per le strade, a riprendere ciò che accade e a metterlo su YouTube perché i media non possono dire nulla. In altre zone come Juarez, Tijuana e Sinaloa, invece, si possono pubblicare notizie ma il giornalista non può fare i  nomi dei narcos o dei cartelli. Può ad esempio denunciare l’esercito che sta violando i diritti umani o sta facendo sparire la gente però non può mettersi contro i cartelli. 

Quale è quindi il livello di manipolazione dei media ad opera dei cartelli? 

Ci sono diversi cartelli e ognuno ha un sistema diverso di comunicazione. A uno ad esempio interessa molto controllare la stampa: sono cartelli che inviano alle redazioni i video e vogliono vedere pubblicati questi filmati delle esecuzioni da loro compiute o dove dicono che non sono stati loro a uccidere determinate persone, cosa che invece aveva detto il governo. Altri vergano graffiti sui muri e chiamano i giornalisti affinché facciano fotografie e pubblichino determinate notizie. Altri chiamano direttamente in redazione e dicono che una notizia non si può pubblicare. Parallelamente, e questa è una cosa molto grave, ci sono reporter che ricevono soldi dal crimine organizzato: li chiamiamo “narcoperiodistas” . Sono persone che vivono in redazione che avvisano i narcos su chi sarà il giornalista che coprirà la notizia. Altri reporter vigilano la scena del crimine sempre per capire chi sarà a scrivere di quella notizia; questo complica la situazione. In alcuni stati addirittura alcuni giornalisti si travestono, ad esempio da venditori ambulanti, per scattare foto e seguire un pezzo, affinché non vengano riconosciuti. 

Il Messico ha comunque anche un giornalismo sano e impegnato, come testimoniato dalle molti morti di cronisti che informavano sugli affari dei narcos… 

Nella varietà delle situazioni descritte ci sono però anche dei giornalisti, pochi, che hanno resistito.  “El Diario” di Juarez ,il settimanale “Zeta” di Tijuana, “El Debate” di Sinaloa ad esempio. In questi casi c’è un vero giornalismo investigativo e se qualche notizia è difficile da far passare la si fa arrivare ai quotidiani nazionali che si pubblicano nel distretto federale, oppure, addirittura farla arrivare negli Stati Uniti affinché venga pubblicata dal New York Times o dal Dallas Morning News, dove si riesce. In generale la stampa nel distretto federale è buona, anche la nostra rivista Proceso procede bene, parla di narcos, fa inchieste e non ha finanziamenti governativi: si mantiene vendendo. Grandi inchieste partono da gente che da altri Stati ci racconto ciò che accade, che ci fanno segnalazioni. Insieme ad altri giornalisti abbiamo organizzato una marcia di giornalisti e siamo andati fino dal Governo per chiedere protezione che ovvi alla scusa costante del governo che dice di non poter agire in quanto sono i narcos a minacciare non lo stato.  E per chiedere che si facciano indagini sulle morti dei giornalisti, e per aiutare coloro che sono sotto minaccia da parte dei cartelli, magari creando speciali condizioni di rifugio tramite il ministero degli Interni: qualcosa si sta muovendo ma tuttavia è difficile perché i giornalisti messicani sono spesso divisi e competitivi e nessuno pensa all’utilità di un meccanismo di protezione per tutti, se non è direttamente coinvolto.

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