Parola di uomo d’onore
Sicuramente il giudizio sull’ultimo libro di Enrico Bellavia, cronista giudiziario di valore per il quotidiano “La Repubblica”, può essere viziato dalla conoscenza professionale e umana che di lui abbiamo maturato in più di un decennio, ma è fuori di dubbio che il suo “Un uomo d’onore” si legga tutto d’un fiato perché è proprio un bel libro.
“Non sono un pentito. Non ho nulla di cui pentirmi”: così esordisce Di Carlo e quindi Bellavia ha buon gioco nel riferire le sue rivelazioni con uno stile asciutto e poco incline alla retorica, scrivendo pagine di rara intensità, tanto da essere lette come i capitoli avvincenti di quello che sembra un vero e proprio romanzo giallo. E che la vita del boss di Altofonte sia un romanzo lo si capisce dalla lettura comparata del suo cursus honorum e della cronologia delle vicende che si trova all’inizio del volume. Dal 1961, anno di ingresso in Cosa Nostra, al 1996, anno in cui inizia la sua collaborazione con la magistratura, Franco Di Carlo si trova al centro dei più intricati misteri che riguardano la mafia siciliana. Trentacinque anni di militanza dentro una delle più terribili associazioni criminali al mondo. Dal suo osservatorio criminale, al soldo prima e poi alla guida della famiglia mafiosa di Altofonte, Di Carlo vive l’epopea ruggente di Cosa Nostra, con l’ascesa inarrestabile e l’altrettanto repentina caduta dei “corleonesi”.
Sono gli anni in cui Liggio prima, Riina e Bagarella poi si fanno strada a colpi d’arma da fuoco, fino a concepire la stagione stragista, poi confluita nella strategia dell’inabissamento decisa dall’ultimo dei boss rimasti sul campo, Bernardo Provenzano. Bellavia descrive Di Carlo fin dalle prime pagine con tono disincantato; non è sua intenzione tracciarne un profilo dai contorni mitici, ma resta comunque in qualche modo colpito da un uomo che, pur rompendo con Cosa Nostra, non rinnega completamente il suo passato. Pur essendo un corleonese doc, addentro alle segrete stanze del potere mafioso, Di Carlo non è mai stato condannato per omicidio ed è riuscito a sottrarsi all’accusa di associazione di stampo mafioso, ha fatto molti anni di galera in Inghilterra per traffico di droga e associazione per delinquere. Per molti anni la sua fedina penale è restata immacolata. Di lui, imprenditore dal ricco portafoglio attivo in molti settori, si sospettavano amicizie e collegamenti, ma nulla più per molti anni.
Tremila pagine di verbale, mille udienze in decine e decine di processi da una parte all’altra dell’Italia. Il giudice palermitano Guido Lo Forte, oggi alla guida della Procura di Messina, lo ha definito “una biblioteca della storia della mafia”. Soltanto dopo undici anni di carcere, però, ha iniziato a parlare con i magistrati italiani, ricostruendo i retroscena più inquietanti dei misteri italiani degli ultimi decenni. “Ho scelto – dichiara con franchezza Di Carlo – di collaborare, e l’ho fatto preservando quello che considero il bene più prezioso: la mia dignità. Non ero con le spalle al muro, avevo praticamente saldato il mio conto con la giustizia. Stavo per tornare libero: solo allora ho iniziato a rispondere alle domande dei giudici. Nessuno doveva pensare che collaboravo per non farmi la galera. Chi è appartenuto per una vita a Cosa Nostra sa che la galera deve farsela, giusta o sbagliata che sia. Ho messo a posto i miei conti con la legge. Mentirei se dicessi che non ho fatto i miei calcoli”.
Il Regno Unito è stata la seconda patria per l’uomo di Altofonte, fin dall’inizio degli anni Ottanta, quando venne espulso da Cosa Nostra, perché accusato di aver lucrato su una partita di droga. E dall’ambiente londinese, il boss ha tratto una lezione di stile. L’immagine per lui è tutto. Un lord impeccabile, un un distinto uomo d’affari: così Di Carlo è apparso a lungo e si è mosso sullo scenario criminale nazionale e internazionale, dotato di istinto e intelligenza fuori dal comune, ma purtroppo votate entrambe al male. È stato uno degli uomini cerniera tra la manovalanza criminale della mafia e le alte sfere della politica, della burocrazia e dell’economia che trovano conveniente tradire le istituzioni e i cittadini per venire a patti con il diavolo, spinti dal desiderio di aumentare prestigio, potere e ricchezza. Di Carlo si è trovato sempre a suo agio tanto con narcotrafficanti internazionali come Cuntrera e Caruana, quanto con imprenditori rampanti quali il milanese Berlusconi, senza dimenticare i politici come Ciancimino e Lima.
Dalla guerra di mafia ai nuovi business del narcotraffico e degli appalti pubblici, passando alle rivelazioni sugli omicidi di Giuseppe Di Cristina, “la tigre di Riesi”e di Peppino Impastato, il boss di un tempo dimostra precisione e logica nelle ricostruzioni che offre al lettore, grazie alla mediazione giornalistica di Bellavia. Con dovizia di particolari viene offerto un quadro completo delle vicende che interessano Cosa Nostra dagli inizi degli anni Sessanta fino al periodo delle stragi del 1992. Al centro il racconto delle lotte interne alla mafia siciliana e dell’eliminazione dei nemici, uomini delle istituzioni spazzati via senza pietà, perché avevano osato fare il loro dovere.
Anche di misteri parla Di Carlo, come quello dell’omicidio Calvi, avvenuto proprio a Londra; da sospettato numero uno dell’eliminazione del banchiere a teste attendibile contro gli accusati. Mentre è in carcere il boss di Altofonte riceve anche la visita di non ben individuati agenti segreti. In ballo anche la verità sulle stragi di Bologna e di Ustica. Di estremo interesse poi sono i racconti della faccia pulita della mafia, rappresentata da nobili e imprenditori che non vogliono che il loro nome venga macchiato dal sospetto di rapporti con la mafia, ma al tempo stesso ne ricercano continuamente servigi. E che dire poi del racconto in presa diretta delle relazioni pericolose del duo Berlusconi – Dell’Utri con i boss di Cosa Nostra?
Di Carlo fu, al pari di Stefano Bontate, Mimmo Teresi e Gaetano Cinà, ricevuto da Silvio Berlusconi, grazie alla mediazione di Dell’Utri. Dopo quell’incontro arriverà ad Arcore, in qualità di stalliere, Vittorio Mangano e verrà lanciata da Bontate una colletta dentro Cosa Nostra per finanziare le attività imprenditoriali degli amici al nord, una raccolta straordinaria che produrrà qualcosa come venti miliardi di lire dell’epoca. Soldi di cui, una volta che Bontate verrà ucciso, non si saprà più nulla e di cui Di Carlo è certo ne sappiano qualcosa proprio Berlusconi e Dell’Utri.
Scrive Bellavia che “Chi è in Cosa Nostra non ragiona per crimini, ma per conseguenze. La propria storia personale è rappresentata solo da ciò che emerge giudiziariamente. Un uomo d’onore non parla di ciò che ha commesso, ma di ciò che «ha pagato», che gli è stato attribuito e per cui ha scontato una condanna. Non c’è il reato ma la sanzione. Di reati Di Carlo ne ha confessati quanti ne contiene un baule. Eppure ci sono cose che non dirà mai e moriranno con lui”.
Enrico Bellavia
UN UOMO D’ONOR
E
Rizzoli, Milano 2010
pp. 398 € 11,20
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