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Il Clan dei montanari della Puglia garganica

Di Gaetano Liardo il . Puglia

L’arresto ieri di
Franco Li Bergolis si inserisce all’interno della complessa ed esplosiva
geografia criminale dell’area garganica, una zona, insieme a quella
di Manfredonia, che nel rapporto della Dia del primo semestre del 2009
viene definita «a più alta incidenza criminale, per la presenza di
gruppi organizzati». Omicidi e faide, scontri tra famiglie per il controllo
del territorio, aggravati, secondo gli investigatori della DIA, dalla
presenza di due latitanti del “clan dei montanari”.  Giuseppe
Pacilli e Franco Li Bergolis. Entrambi del sodalizio Romito – Li Bergolis.
Entrambi condannati nel processo alla mafia garganica scaturito dall’operazione
“Iscaro e Saburo” del 2004.

Un sodalizio nato anni
fa, ma oggi non più esistente. Le due famiglie un tempo alleate
sono in guerra tra loro. I Li Bergolis accusano i Romito di tradimento
perché, da quanto emerso proprio dal processo alla mafia garganica,
avrebbero svolto un ruolo di collaboratori con le forze dell’ordine.
La contrapposizione è forte e lascia una scia di sangue sul terreno.
L’omicidio eccellente, e più “pesante”, è stato quello di Franco
Romito ucciso il 29 aprile del 2009 a Manfredonia, insieme a Giuseppe
Trotta. Franco Romito oltre ad essere a capo della famiglia omonima
era, con Franco Li Bergolis, a capo del “clan dei montanari”.

Un clan che, dalle
indagini dell’operazione “Iscaro e Saburo”, poteva contare su
296 affiliati, con contatti consolidati con la famiglia De Stefano di
Reggio Calabria e con gli Zaza – Mazzarella di Napoli. Un’organizzazione
strutturata attorno ad una «forte caratterizzazione di tipo familiare
che ne assicurava – dall’analisi della Dna – l’impenetrabilità
alle forze dell’ordine ed il senso di appartenenza alla montagna,
era diretta da un nucleo di vertice composto dai personaggi storici
di Monte Sant’Angelo, Mattinata e Manfredonia».

Ma che non poteva tollerare
“tradimenti” e contatti con le forze dell’ordine. Gli atti
del processo, dai quali è venuto fuori il ruolo dei Romito «i
quali – si legge nella relazione della Dna – avevano intessuto rapporti
con militari dell’Arma all’epoca in servizio presso il Reparto Operativo
di Foggia in qualità di loro “confidenti”» non poteva passare
sotto silenzio.

«E’ altamente probabile
–si legge nel rapporto della Dna- che l’omicidio di Romito Franco,
persona di notevole considerazione nell’ambito della mafia garganica,
rappresenti una vendetta maturata in seno alla criminalità organizzata
per punire la sua presunta “collaborazione” con appartenenti alle
forze dell’ordine. Tale collaborazione – scrive la Dna – risalente
all’indagine “Iscaro”, resa nota nel corso della fase dibattimentale,
è stata verosimilmente percepita come una strategia dei Romito volta
a colpire per via giudiziaria i soli affiliati al gruppo vincente dei
“li Bergolis”, allo scopo di consolidare il proprio già consistente
potere economico ed imprenditoriale e di assumere la leadership incontrastata
della criminalità organizzata garganica».

Tolto lo scomodo alleato
di mezzo, ucciso perché “confidente” il controllo del
clan dei montanari passa, così, nelle mani dei Li Bergolis. Di Franco,
quindi, 32 anni e una latitanza finita con le manette ai polsi.

 

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