Sakineh, nella sua vicenda la storia di una civiltà perduta
Pioveranno pietre sul corpo di Sakineh.
Ma chi è Sakineh? Una donna che ad ore verrà lapidata. Una condanna
a morte per avere tradito il marito. Ma Sakineh Mohammadi Ashtiani è
anche una donna che vive oggi nella Repubblica Islamica dell’Iran,
dove si muore anche per omosessualità. Sakineh condannata a morte,
in quanto donna prima che colpevole, per altro presunta data la sua
dichiarazione di innocenza, condannata a morte per tradimento del
vincolo coniugale. Un’accusa che non insegue la verità ma che
persegue la brutalità. Una sentenza cui si è giunti con
interrogatori sotto tortura e un processo in cui la stessa imputata
sta ormai incarnando a livello mondiale una giustizia che punisce e
uccide e basta.
La sua storia è la storie di
moltissime donne, cittadine di serie B e vittime di ataviche
discriminazioni, che nel silenzio subiscono questo atroce destino
senza alcun seguito mediatico o risonanza internazionale. Questa è
la giustizia in Iran e non soltanto in Iran. Nonostante le
mobilitazioni mondiali, le invocazioni del figlio Sajjad l’impegno
del governo italiano e del Vaticano, le prese di posizione anche di
istituzioni locali, nonostante le gigantografie che stanno facendo il
giro del mondo, gli appelli promossi sulla rete per chiedere una
commutazione di questa pena assurda a prescindere dal presunta reato
commesso e che quasi sempre segue un processo assolutamente privo di
garanzie per chi lo subisce, la sua situazione non migliora e il
presidente Ahmadinejad manifesta insofferenza per ogni ingerenza e
proprio in questi giorni la stampa iraniana si scagliando contro
l’Occidente.
L’Iran è tra i 59 paesi che ancora
mantengono la pena di morte, a fronte dei 139 che l’hanno abolita,
ma è anche il paese in cui, come anche in Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Nigeria, Pakistan, Sudan e Yemen, è l’aberrazione di
una falsa giustizia viene portata avanti anche per mezzo della
lapidazione. Inoltre l’Iran è anche il paese in cui questa
giustizia disumana è prestata ad una bieca e cieca teocrazia. Dunque
l’indignazione è massima e collettiva. Ecco perché ciascuno di
noi deve decidere di schierarsi in difesa della vita di Sakineh
firmando l’appello di Amnesty International. Perché un’ingiustizia
sta per compiersi. Un grave attacco al cuore di ogni civiltà.
Perchè la dignità dell’umanità e i
diritti fondamentali di ogni persona sono compromessi quando
un’esecuzione viene portata a compimento. Perchè, allargando la
riflessione e il respiro interrotto che tali vicende brutalmente
private di ogni essenza, e tali sentenze depredate di ogni giustizia
e umanità coralmente provocano, la coscienza di ognuno di noi è
chiamata a soffermarsi con tutti i distingui del caso. Nonostante la
nostra terra, infatti, non sia in ostaggio di un’entità
giudiziaria istituzionalizzata che condanna a morte, essa convive
tuttavia con un intra-stato mafioso, arrogante che si ammanta di
fedeltà al Dio Cristiano e Cattolico, che decide del destino di un
territorio e della vita di cittadini onesti e disonesti a secondo
che i primi si siano battuti per la legalità e i secondi non abbiano
adeguatamente servito gli intenti criminali. Dunque l’impegno per
la difesa della vita, della verità, della dignità conosce diverse
declinazioni e passa anche per quella Calabria che si ribella alla
‘ndrangheta esattamente come si ribella in nome della libertà di
donne e uomini vittime di un potere cieco, deviato e aberrante.
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