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Due anni di Trattato Italo-Libico

Di Stefano Fantino il . Internazionale

Sono passati due anni da quel 30
agosto, data che oramai sancisce
la cosiddetta giornata dell’amicizia
italo-libica. Il giorno scelto
è quello della prima firma del “Trattato di
Amicizia, Partenariato e Cooperazione” tra
il nostro Paese e la Giamahiria di Libia. Un
“accordo” che riunisce in sé molti aspetti,
dall’economico, al culturale, al geopolitico e
di fatto sancisce una forte corsia preferenziale
nelle relazioni con la Libia, paese con cui
l’Italia ha storicamente avuto rapporti, molto
spesso duri e aspri. Il carattere sotteso al
trattato, rimane, in fondo, il recupero di una
normalità che la storia del colonialismo aveva
di fatto negato: al punto che il capo secondo
del trattato parla di “Chiusura del capitolo
del passato e dei contenziosi”. Ma prima di
analizzare questo aspetto, che rimane quello
prettamente economico, è doveroso un accenno
alla prima parte del trattato.
Nel capo uno del documento si fa riferimento
ai “Principi generali” che sono alla base
dello stesso: svariati articoli che senza giri di
parole sottolineano la conformità dei due paesi
contraenti al rispetto di norme contenuti
nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione
universale dei Diritti dell’Uomo,
elementi che di fatto dovrebbero impegnare
anche la Libia su queste tematiche. Inoltre la
stretta intesa italo-libica impone che ciascuna
delle parti «non userà, ne permetterà l’uso dei
propri territori in qualsiasi atto ostile» (articolo
4, comma 2), di fatto suscitando in molti
dubbi sulla compatibilità, almeno sulla carta,
del trattato con la “militanza” italiana nella
Nato.
Economicamente il trattato impone all’Italia
di impegnarsi per progetti infrastrutturali di
base nei limiti di 5 miliardi di dollari americani,
spalmati su venti anni. 

Lavori che saranno
affidati ad aziende italiane, con fondi
reperiti tramite addizionale IRES a carico
delle aziende petrolifere, e gestiti direttamente
dall’Italia. A carico italiano anche la
costruzione di duecento alloggi, il finanziamento
di studi per cento studenti libici e la
restituzione di manufatti e opere trafugate
in Italia in epoca coloniale. Meno netto
e alquanto fumoso per non dire irrisolto, il
problema del recupero crediti delle aziende
italiane e degli italiani cacciati dalla Libia. A
loro la possibilità, garantita da Tripoli, di visti
facilitati per il rientro nel paese africano.
Un punto importante del trattato, dai più dibattuto
da due anni a questa parte, riguarda
la cooperazione tra Italia e Libia per la lotta
all’immigrazione clandestina (art. 19). Gli
accordi di monitoraggio e pattugliamento si
arricchisce di un un sistema di controllo delle
frontiere terrestri libiche con un costo previsto
di 300 milioni nel triennio 2009-2011, la
metà a carico dell’Italia e l’altra metà
dell’Unione Europea. Ricordiamo che la Libia
non è parte della convenzione sullo status
dei rifugiati (Ginevra, 1951): di fatto i respinti
dall’italia in Libia non godo di questo status
e sono considerati immigrati illegali. Con
quanto di più amaro possa ciò comportare.
In questo senso la disputa sull’immigrazione
irregolare ignora completamente l’aspetto
dei rifugiati, considerati carne da macello,
e sacrificabili. Suscitando anche la risposta
dell’Unhcr che chiede che “il principio internazionale
di non-respingimento continui ad
essere integralmente rispettato”. E che recentemente
ha visto la parziale chiusura del suo
ufficio a Tripoli.

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