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Dalla Chiesa, 28 anni dopo

Di Lorenzo Frigerio il . Interviste e persone

Il 3 settembre
del 1982 Cosa Nostra eliminò uno dei suoi più temibili nemici,
Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo e già generale
dell’Arma dei Carabinieri. L’agguato in via Carini, nella serata
palermitana, quando i killer non esitarono a colpire, oltre al generale
e all’agente di scorta Domenico Russo, anche la moglie del prefetto,
Emanuela Setti Carraro.

Molti sostennero
che anche l’eliminazione della giovane consorte non fu casuale: la
mafia avrebbe temuto cioè la conoscenza di importanti segreti e quindi
avrebbe eliminato un pericolo testimone. La mafia non era l’unico
soggetto a temere i segreti a conoscenza del generale; tra gli episodi
oscuri della sua scomparsa, resta da chiarire il trafugamento probabile
di importanti documenti dalla sua residenza privata, testimoniata dal
ritrovamento successivo della chiave della cassaforte, che mancava all’appello
nell’immediatezza della tragedia.

Cento giorni
trascorsero dall’arrivo dell’uomo che aveva vinto la battaglia contro
il terrorismo per conto della Repubblica. Il primo atto ufficiale, appena
arrivato a Palermo, fu la partecipazione alle esequie di un altro feroce
nemico dei boss, Pio La Torre. L’uomo politico e segretario del PCI
siciliano era stato falciato dal piombo dei killer il 30 aprile insieme
al suo autista e compagno fedele, Rosario Di Salvo. La Torre e dalla
Chiesa si conoscevano, avevano collaborato e si stimavano profondamente,
pur avendo due distinti orientamenti culturali. Entrambi avevano visto
il cancro della mafia della provincia attecchire anche nel capoluogo.

Nei decenni
che li videro protagonisti, su versanti differenti, a volte anche opposti
pur nel rispetto reciproco, i due uomini toccarono con mano l’accresciuto
potere dei “viddani” corleonesi che muovevano le loro pedine,
occupando manu militari Palermo, dopo aver spazzato via nemici interni
ed esterni all’organizzazione. Entrambi erano nemici giurati delle
cosche ed entrambi sapevano che avrebbero saldato il loro conto aperto
con l’organizzazione mafiosa pagando con la stessa vita.

La pericolosità 
di La Torre era nota: fu il primo a capire che le mafie andavano colpite
nella fase di accumulazione dei capitali illeciti. Sua l’intuizione
delle misure di prevenzione patrimoniale che, unitamente alla definizione
dell’articolo 416 bis voluto per colpire direttamente la partecipazione
all’associazione mafiosa, costituiscono il fulcro della legge Rognoni
– La Torre. Un provvedimento che fu approvato dopo le uccisioni dello
stesso La Torre e di dalla Chiesa, il 13 settembre del 1982.

Soltanto con
l’uccisione del prefetto, mandato in Sicilia con le armi spuntate
– fino all’ultimo il generale chiese quei poteri che saranno accordati
solo ai suoi successori – la politica si ricordò di tenere chiuso
nei cassetti il provvedimento più incisivo da adottare e corse ai ripari
portandolo all’approvazione dell’aula parlamentare.

Altrettanto
pericolo era dalla Chiesa, soprattutto per la fine comprensione del
fenomeno mafioso, colto nella sua essenza di male assoluto, andando
ben oltre gli stereotipi che ne confinavano il profilo in quello dei
rozzi killer al servizio del latifondo.

Nell’ultima
intervista rilasciata a Giorgio Bocca per il quotidiano “la Repubblica”,
a meno di un mese dalla strage in cui perse la vita e che offriamo
nella sua trascrizione integrale
, dalla Chiesa mette in evidenza
il suo pensiero sulla modernità della minaccia delle cosche.

In risposta
ad una domanda del giornalista, il prefetto dimostra di avere le idee
chiare: “La Mafia ormai sta nelle maggiori città
italiane dove ha fato grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari
industriali. Vede, a me interessa conoscere questa “accumulazione
primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del
denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici
di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti
a la page. Ma mi interessa ancora di più
la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese,
a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta
nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio,
controlla il potere”

Da quanto dichiarato
si comprende come, contrariamente a quanto sostenevano i suoi denigratori
che adombravano leggerezze e ritardi nell’azione prefettizia, una
data lettura del problema mafia da parte di dalla Chiesa, l’ex generale
dei Carabinieri, invece avesse ben colto l’evoluzione delle cosche
e quanto fosse consapevole del fatto che ciò avesse inevitabilmente
portato ad un rinnovato interesse per nuovi mercati, per nuovi affari
che ne avevano spostato il baricentro fuori dall’isola.

Nell’avanzata
preoccupante dell’organizzazione criminale e nella pericolosità accresciuta
per la convivenza civile, dalla Chiesa attribuiva un ruolo strategico
al rapporto con la politica, tanto da arrivare a mettere in guardia
sia il primo ministro Spadolini che il leader democristiano Andreotti
delle sue intenzioni bellicose nei confronti di quelle frange politiche
che avevano fino ad allora appoggiato la mafia, servendosene a più
riprese e facendosi utilizzare tanto su scala locale che su scala nazionale.

Il riferimento
contenuto nell’intervista di Bocca al caso Mattarella è emblematico
e dalla Chiesa rilancia una tesi poi successivamente suffragata in tante
altre tragiche vicende: “Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo:
la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del “palazzo”.
Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente
quando avviene questa combinazione fatale,
è diventato troppo pericoloso ma si può
uccidere perché è isolato”.

Dalla Chiesa
mise quindi molto bene a fuoco, sicuramente tra i primi insieme a La
Torre, il rapporto malato tra mafia e politica e nei cento giorni del
suo mandato, sia in pubblico che in privato, non lesinò pesanti critiche
a quanti all’interno delle istituzioni avevano tradito il giuramento
di fedeltà alla Repubblica per paura o per tornaconto personale.

L’avvio anche
di una ficcante indagine sui patrimoni dei mafiosi e dei loro prestanome
richiesta alla Guardia di Finanza era un segnale inequivocabile per
quanti intrattenevano relazioni inconfessabili di potere e di affari
con i boss.

Questi soggetti
si sentivano minacciati dalla possibilità che a dalla Chiesa fossero
finalmente concessi, in ragione del suo pressing e di quello di una
pubblica opinione stanca di funerali di Stato, quei poteri di direzione
nell’azione dello Stato contro le cosche.

Ecco perché 
qualcuno fece da sponda all’eliminazione brutale del prefetto, ecco
perché qualcuno all’interno dei palazzi della politica vide con favore
la rimozione violenta del problema dalla Chiesa, prima che si potessero
creare ulteriori danni.

Attendiamo
ancora oggi di sapere i nomi dei mandanti dell’omicidio dalla Chiesa.
Non fu un delitto soltanto di mafia, intervennero, come per altri omicidi
eccellenti successivi nella storia del nostro Paese, altre volontà
assassine, in capo a soggetti politici e istituzionali che sono rimasti
nell’ombra.

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