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L’epoca degli dèi nani

Di Stefano Lamorgese il . L'analisi

Sulle sponde del Mediterraneo e, più all’interno, nei molteplici territori che vi si affacciano – da millenni s’inseguono le civiltà. La preistoria in Sardegna e nei Pirenei; e poi il Nilo, Creta e l’avventura minoica, i Fenici dal Libano a Cartagine; Micene, Ilio, Sparta e Atene. Dai monti dei Balcani partì l’avventura del Macedone che infine lasciò il campo a Roma – un respiro di legge e sangue lungo qualche secolo – fino all’avvento dell’era cristiana, l’ennesima invasione semita del mondo antico. E poi, ancora: i popoli dal grande nord e dalle steppe, Bisanzio, gli arabi e i turchi. Fino a noi, protagonisti più o meno consapevoli dell’omologazione industriale. Civiltà sopra civiltà, lingua sopra lingua, religione sopra religione: tutte partecipi dell’eterna osmosi dell’umanità in cammino. Ogni volta uguale: sulle macerie di antiche città la fondazione di nuovi insediamenti; il sale sparso sulle radici di Cartagine fu vendicato dai Vandali e dai Goti. Lo splendore di Santa Sofia rifulge oggi per un dio diverso da quello per il quale l’immensa basilica fu eretta, ma il cui nome è tuttora nascosto nei mattoni della cupola. Poi… oggi persino i giganti di tubi, petrolio e acciaio – uno per tutti: l’area industriale di Mestre, a un passo dalla gloriosa Serenissima, regina del mare – devono subire l’ingiuria prematura del tempo, di una storia e di un’economia che bruciano in fretta risorse e patrimoni sulla linea del tempo che si fa sempre più corta.
Nel susseguirsi delle epoche e delle culture, però, alcuni aspetti della vita umana – aspetti comuni a tutti i popoli che hanno abitato queste nostre rive – hanno perdurato fin quasi ai nostri giorni sulle sponde del Mediterraneo; fino, almeno, al trionfo piuttosto della società industriale. Come insegnano le intuizioni di Fernand Braudel, infatti, non è difficile comprendere che la dura realtà fisica e geografica del Mare Nostrum e delle sue terre ha da sempre condizionato,  inasprendola, la vita degli uomini che vi sono nati. Tutti i popoli del Mediterraneo ne hanno distillato uno stile di vita ispirato a una più che necesaria sobrietà, persino mitizzata – Orazio! – come ogni qualità aurea considerata, certo talvolta ipocritamente, profondamente umana. Poco cibo, molto duro lavoro: questa la regola delle civiltà mediterranee, addolcita dal sapore intenso dell’olio d’oliva – dorato e magico unguento; come dal vino – balsamo violetto profumato di terra e di mare – generatore di ire funeste e di sogni prodigiosi. A questa prassi consolidata che congiunse per millenni la fatica del lavoro e i colori del mondo si contrappongono, tramandate da ogni cosmogonia e da ogni epos, i fasti dell’eccezione, della festa, della liberazione dei sensi e dei corpi.
E così è proprio nel confronto tra la vita sobria (quando non grama) di ogni giorno e il trionfo dell’abbondanza di alcune importanti feste rituali che s’intravede la logica dell’antico patto sociale che i mondi mediterranei hanno via via sottoscritto. Pastori, schiavi, agricoltori sudano sulle zolle aride d’estate e fangose d’inverno, ovunque attendendo un Carnevale di sollievo; negli alti palazzi è Carnevale ogni giorno: le aristocrazie – vantando geneaologie divine – si lanciano in sfrenatezze, perpetuando nel costume quotidiano ciò che per chi non vive nel lusso è solo eccezione, festa e rarissimo abbandono. Le tavole degli dèi e degli eroi, gli uomini e le donne che intorno vi si saziano, divengono infatti tema di poemi e modelli estetici. Divengono, figli di Titani, soggetti d’arte e pretendono – finanche riuscendovi – di finire sugli altari, glorificati tra fumi d’incenso e sacrifici (talvolta anche umani) in un’Iliade o un’Odissea qualsiasi. Tutto questo dicotomico retaggio è – si direbbe oggi – “nel DNA” dei popoli del Mediterraneo.
Tutto passa, tutto cambia, però. Le baccanti non sono più invasate dal dio, ma pagate a ora da solleciti segretari. Apparizioni e voci sono incise su DVD. I templi non più di Fidia, ma del geometra prestanome. Quindi è persino ovvio che le vittime di oggi – svaniti i tempi mitici – escano più o meno indenni dai tanti palazzi graziosi ove regna eterno il Carnevale: è il frutto di un restringimento incorregibile della fantasia e della dignità dei dominanti – nani: non più giganti –   contenti più di primeggiare ostentando opulenza e impunità che di meritarsi a fatica – magari col proprio sangue – la gloria.
L’età dell’oro non potrebbe essere più lontana. Il Carnevale di Dioniso è norma quotidiana, la paura – il terrore? – di sentirsi uguali agli altri nel nostro baccanale low-cost è spiegato.

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