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Malavita, Sud e identità culturale

Di Stefano Fantino il . L'analisi

Spesso l’arresto di un boss di spicco della criminalità mafiosa
rappresenta l’inizio di un percorso etnografico e sociologico dove confluiscono
senza soluzione di continuità abitudini, usi, costumi, gusti alimentari
e “culturali” dei catturati. Un calderone interpretativo mass mediatico
che spesso alimenta una mitologia culturale che non solo svia da una
interpretazione più ampia dei fatti, ma offre non pochi spunti per
una analisi erronea delle mafie. Con il rischio, spesso concretizzatisi,
di far calare una cappa di arcaico fascino sui personaggi mafiosi, visti,
all’estero ad esempio, come l’incarnarsi di un Meridione ferino e ancestrale.  

Questa deriva è confluita in casi ben noti come quello dell’analisi
del covo di Provenzano dopo la cattura del boss qualche anno fa. Ma
talvolta non diventa solo l’oggetto dell’analisi e il tema di tante
discussioni, ma il cento propulsivo. Ricordiamo solo qualche tempo la
figura di Salvatore Padovano, membro di spicco della Scu leccese, riciclatosi
in scrittore prima che un agguato ponesse fine alla sua vita. Oppure,
ed è questo il tema che si vuole affrontare oggi, del rapporto tra
le mafie e il mondo della canzone. Non solo gusti musicali, si badi
bene, ma la canzone popolare come strumento di affermazione di una identità
malavitosa e di esaltazione di uno spirito criminale. Un tema che già
nel rapporto tra neomelodici e camorra è stato affrontato, ma che da
qualche anno soprattutto riesplode in maniera perentoria collegato al
nome della mafia più potente, la ‘ndrangheta. Solo qualche anno fa
queste “canzoni della malavita” ebbero grande popolarità, sul mercato
estero soprattutto, creando una sorta di ammirazione intorno alle gesta
dei capibastone che venivano cantati.  

Ora, ed è notizia di questi giorni, il tema ritorna alla ribalta
dopo che un blitz ha portato in carcere alcuni affiliati al clan Bellocco
ha svelato la passione del capobastone Gregorio per la poesia e per
le canzoni. Composizioni che narrano della sua latitanza e di episodi
violenti sono state ritrovate dai carabinieri nel covo dove, nel febbraio
del 2005, fu arrestato. Nel covo dove fu rintracciato Gregorio Bellocco
i carabinieri del Ros sono state trovate numerose audiocassette e cd
tra cui “Penzeri di nù latitanti” (cioè ”pensieri di un
latitante”) dove sono molteplici i riferimenti a Gregorio Bellocco.
Nella canzone “Nu cane Fedele”, per esempio, il testo invita all’omertà
: “cercate di farvi i fatti vostri se volete stare con la pace,
non mi tradite se voi mi vedete…”.  Ora la notizia assume
una duplice valenza. Da un lato, investigativa vera e propria: secondo
il gip di Reggio Calabria, la canzone intitolata “Circondatu” (cioè
“circondato”) costituisce “la prova inconfutabile” della
presenza di Bellocco in un covo in località Iola di Anoia, in provincia
di Reggio. Per gli inquirenti il componimento, descrive fedelmente le
fasi della fuga del boss dal rifugio di Anoia nel 2003. In seconda battuta
la composizione di canzoni e il loro circolare sulla rete ribadiscono
la volontà di espandere una visione positiva dell’ “onorata società”
trasmettendo fittizi valori in realtà completamente contrari alla realtà
essenza delle ‘ndrine.   

Non solo Bellocco in questi giorni. La pubblicazione del volume fotografico
di Alberto Giuliani «Malacarne. Leben mit der Mafia» (Malacarne. Vivere
con la mafia), editore Edel Earbooks, con testi di Andrea Amato, Pino
Corrias, Francesco La Licata, Nicola Gratteri, Antonio Nicaso e Roberto
Saviano ha creato un caso. Perchè? Semplicemente gli autori non erano
stati informati della scelta di allegare al libro anche i cd di canzoni
di ’ndrangheta, pubblicati tra il 2000 e il 2005, e prodotti dal fotografo
di Paola, Francesco Sbano. Repentine le prese di distanza. Anche perché
le musiche, fatte passare come ennesimo innocuo retaggio culturale meridionale,
in realtà sviliscono la percezione delle mafie come fenomeno complesso,
anche moderno nel loro catapultarsi nella scena economico e finanziaria
internazionale. Sembra di essere di fronte alla tipica visione di Pitrè
sulla mafia, una “identità culturale” siciliana. Un mito inesatto
e da sfatare, una cultura meridionale che viene “scippata” al Sud
e inserita in un contesto mafioso che non le appartiene. Sfatare questo
terribile tentativo di identificare criminalità e identità meridionale
è il passo propedeutico che ognuno deve saper compiere.

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